2 Novembre 2009 in Blog, Notizie, Storia

Ricerca Genealogica – L’uso dei soprannomi

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Alla soglia dei seimila nomi reciprocamente imparentati nell’albero genealogico degli abitanti di Castro, ai quali si aggiunge una quota di tremila abitanti di Ortelle e dintorni, con l’ambizione di diventare un vero e proprio database storico di tutta la contea,  vengono da sole molte considerazioni, tra cui alcune sull’uso del soprannome.

Abbiamo visto che il cognome rinasce alla fine del Medioevo e si ufficializza dopo le direttive del Concilio di Trento che obbligano i parroci officianti a verificare le linee ereditarie degli sposi al fine di escludere legami familiari o sacramentali. Tuttavia nemmeno il cognome riuscirà a individuare perfettamente l’individuo all’interno della comunità, neppure se aiutato dalla paternità, o nel secolo recente, dalla data di nascita. Tutti i sistemi di riconoscibilità dell’individuo cedono proprio nelle piccole comunità dove ricorrono spessissimo i soliti cognomi (per derivazione) e i nomi di battesimo (per omaggio generazionale o per devozione religiosa locale).
La soluzione della data di nascita, poi, non risulta pratica nel vissuto quotidiano e l’uso del soprannome personale diventa quindi necessario ed insostituibile. Lo Scipione studiato a scuola è l’Africano, Fabio Massimo è il Temporeggiatore. Da Roma ad oggi nulla è cambiato. Anzi, i Romani col ricorso alla indicazione della gens utilizzavano già un termine  specifico del clan familiare.

Vincenzo ‘Pizzainu” Capraro

Il soprannome è assegnato quasi sempre secondo uno dei seguenti criteri:
– una qualità fisica
– un mestiere
– un nome di battesimo riconoscibile in ambito familiare

Se di colore bruno o di capelli neri si diventava “moro” o “morettino”, “turchio” se di carattere somatico bizantino, “pilijanca” se albino, “mutu” se afono, ecc. Occhijanchi, Giaganti, ecc. sono riconoscimenti personali che il padre o la madre possono trasmettere anche alla immedita discendenza. Alla formazione del soprannome può concorrere anche un fatto di cronaca o un tic o una particolare espressivita personale, come un intercalare o un balbettio. Un ripetere nei racconti di essere stato militare a Tunisi, porta a distinguersi tra i tanti Rizzo col la contrazione Tunsi,  o una emigrazione in Sud America a ricevere e trasmettere il soprannome di Plata.

Raramente il soprannome è dispregiativo, quasi sempre è accettato e utilizzato dallo stesso portatore per farsi riconoscere all’interno della comunità. A volta è utilizzato per dileggio scherzoso ma in fondo i cognomi dei castrioti non sono particolarmente ingiuriosi.

Il mestiere è alla base di tanti soprannomi. Se il portatore è un maestro sarto o maestro muratore,  il soggetto viene dispensato dal soprannome e verrà appellato per sempre col titolo di Mesciu, come il Don del prete o dei benestanti. Paranza tocca a chi organizzava quel tipo di pesca, Lattature all’imbianchino, Caronte a chi faceva le gite in barca.

Anche quelli che sembrano dei nomi geografici si possono ricondurre a fatti personali o di lavoro. “Tarantini” perchè un antenato ha avuto occasione di lavorare o di provenire da Taranto, “Catolla” perchè si commerciava pesce con la città di Cattolica. “Capitanu” per un lungo imbarco.

Tuttavia, se ad una persona è assegnato alla nascita un nome molto particolare, questi viene dispensato oltre che dall’uso del soprannome finanche dall’uso del cognome. Il nome, in questo caso, assorbe completamente l’individuo e si estende per gravitazione all’intorno dei suoi familiari.
Benemio, Quirino, Pantaleo, Idrusa, Saggio, Viola, Girolamo, non hanno bisogno di essere appellati e i loro figli e mariti saranno appellati con soprannomi come “Antonio da Viola”, o “Antonio Belfiore”. Il soprannome in questi casi può contrarsi per venire più comodo, per cui “Giovanni di Quirino” si contrae in “Cuinu” dove il patronimico diventa direttamente soprannome. Zibideo ha un potere terribile, prima si contrae in “Peo”, poi si estende, ancora oggi, su un intero clan familiare.
A volte è la storpiatura del nome di battesimo a risolvere il problema di identità. Un “Ciseppe” al posto di un inflazionato “Pippi”, un “Antonuccio” al posto di un “Uccio”. Ippazio Antonio diventa un comodo “Patintoni”. Ippazio Antonuccio un “Patucciu” e un Giuseppe Antonio un “Peppentoni”. A usarli pare di offendere, in realtà sono dei banali nomi di battesimo.

Il soprannome è personale e assolve unicamente la necessità della riconoscibilità. Quando questa funzionalità viene meno il soprannome si estingue o si relega a una riconoscibilità più allargata. Si “appartiene” ai “Farina”, è parente ai “Nicoli”, giusto il tanto per dare una dritta alla vecchia zia che non è pratica del nuovo soprannome assunto dal nipote o bisnipote.
Giuseppe Capraro, marito di Assunta “Tarantino” pare non avesse soprannomi, tuttavia i figli ne prenderanno uno diverso a testa: “Ngicca”, “Pizzainu”, “Schirosi” e “Nisi”. Probabilmente, qualunque soprannome avesse il padre, questo non garantiva più la riconoscibilità all’interno della comunità, da qui l’esigenza di un nuovo soprannome su misura.

Ancora oggi il soprannome è usato, benchè la diffusione di nomi di battesimo molto differenziati aiuti a distinguere l’individuo più che nel passato. Sono soprannomi molto più fantasiosi, legati molto al mondo dei media o dello sport. Gabriele “Riva” Panaro alla soglia dei quarant’anni conserva ancora una discreta riconoscibilità col soprannome giovanile anche se l’attività ristorativa che esercita da molti anni lo sta mettendo in serio pericolo.

Tra i ragazzi di oggi paiono prevalere i diminutivi o i vezzi o i modi di dire ricorrenti del portatore. Non paiono soprannomi destinati a durare, sono soprannomi (o nick) limitati all’uso del clan generazionale e solo con l’ingresso nella comunità potranno aspirare a un vero e dignitoso soprannome.

Come dicevamo il soprannome assolve sempre e soltanto alla funzione di riconoscibilità del soggetto, e la riconoscibilità si muove su più ambiti, sia familiare, sia cittadino che extraurbano. Nel primo caso basta il nome proprio o il diminutivo, nel secondo il soprannome vero e proprio, nel terzo caso in genere si assume come nome riconoscibile il nome e il toponimo di proveninza. U Totu e Vitrugna è unanimemente conosciuto in tutto il Salento meridionale. Pur avendo un nome molto comune il pervenire da Botrugno bastava già a identificarlo, anzi a costituire un nome per antonomasia.

Avere un soprannome, infine, è il segno più evidente del fatto di avere un ruolo, sia pur minimo, nella comunità. Solo chi non ha un ruolo sociale può essere dispensato dall’essere  individuato e quindi dalla necessità di essere, appunto,  soprannominato.




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