11 Maggio 2023 in Blog, Storia

il caso Abate

Ortelle 13 ottobre 1923

Il 13 ottobre 1923 ABATE Assunta, vedova CAZZATO in una piccola casetta di campagna dalle parti di San Vito redige in riservatezza un secondo testamento  per disporre delle sue cose e la cosa scatena una causa civile che coinvolgerà nei sei anni successivi mezzo paese.

La coppia Abate Assunta e Cazzato Giorgio muore senza prole, prima Giorgio lasciando i suoi averi alla moglie, poi nel 1925 lascia questo mondo anche sua moglie.

Abate e Cazzato risultano famiglie in Ortelle di piccoli proprietari terrieri, gli Abate, forse arrivati da Otranto nel Settecento, più facoltosi, i Cazzato non molto meno visto l’asse di fondi rustici che gli eredi di questa discendenza ancora oggi assomma.

Nella prima fase del giudizio civile presso il Tribunale di Lecce, per la sola parte che apre la vertenza, vengono ascoltati non meno di quaranta testimoni: medici, podestà, farmacisti, calzolai, avvocati, notai, pittori, braccianti e nullafacenti., pure il prete. Tra testimoni veri e falsi,  a leggere il ricorso successivo dei soccombenti al Tribunale di Appello di Bari, almeno uno per ogni famiglia ortellese.

Ad un certo punto si scomoda il Podestà, siamo nel 1923, che certifica all’eccellentissima corte la data esatta della Fiera di San Vito.

Assunta muore nel 1925 a quasi 85 anni, è figlia di Abate Raffaele, nato agli inizi  dell’ottocento che dividerà i suoi averi tra la citata figlia Assunta, l’altra figlia Nicolina e i maschi Giuseppe, Antonio, Paolo e  Michele.  Gli Abate, a volte riportati nei documenti anche come Abbate, a Ortelle non ci sono più rimasti nemmeno come soprannome. Michelina detta “Bbate”, pronipote per parte della madre Immacolata Abate fu Michele,  ancora ricordata da tutti, è morte qualche anno fa.

Assunta e la sua dote sposano Giorgio Cazzato,  del ramo detto dei Sannuti, benestanti anche loro con un po’ di terre al sole. Non avranno figli, come pure un fratello di Assunta, Giuseppe, mentre i nomi dei nipoti del suo altro fratello Antonio, sono i primi due nomi incisi sulla lapide di marmo inchiodata sulla chiesa matrice di  Ortelle.  Avranno discendenza per cognome Abate solo il fratello Paolo e l’altro fratello Michele.

Nicolina Abate sposerà un vastese, tale Raffaele Carluccio e si trasferirà nella vicina Vaste.

Gli attori della lite sono tutti quì e come avrete già intuito si litigano l’eredità della zia. In particolare il nipote Ippazio Antonio Abate, figlio di Paolo, la cugina Maria Carluccio figlia di Nicolina e Maria Cazzato, sannuta, nipote del defunto marito dell’Assunta.

Il nipote Ippazio probabilmente cura le proprietà della nonna già da un po’ e con un primo testamento fatto nel febbraio del 1923 dal notaio Dragonetti in suo esclusivo favore pensa di avere prima o poi tutta la roba dei nonni paterni.

La quiete del paesello viene sconvolta quando nello stesso anno, nel mese di ottobre, Assunta cambia le sue decisioni e riassegna tutta la massa ereditaria, quella della sua dote alla nipote vastese Maria Carluccio, figlia della sorella Nicolina e quella ereditata dal marito al ramo dei Cazzato e quindi a Maria Concetta, la figlia di suo cognato Carlo Cazzato, maritata Pantaleo De Blasi. A Ippazio Abate, figlio di Paolo fratello di Assunta, nulla.

Ippazio, Maria e Maria Concetta si contenderanno l’eredità per almeno sei anni e, non potendosi vantare in tribunale vizi di forma o eredi legittimi trascurati, la storia romanza tra la circonvenzione di incapace e la sostituzione di persona. Pure si sospetterà che il notaio Valente non abbia controllato, come richiesto dalla legge, la sanità di mente della anziana testatrice.

Ippazio, al Tribunale di Lecce resiste contro le cugine chiedendo per contro l’annullamento del secondo testamento sostenendo che la persona che fece quel testamento davanti al notaio Valente di Poggiardo era altra persona e se anche fosse stata l’Assunta a dettare quelle volontà la donna era a quella data incapace di intendere e di volere.

Il solo Ippazio portò in Tribunale almeno quaranta testimoni in suo favore, testimoni che non giovarono molto alla sua causa. Anzi per come questi argomentarono le deposizioni , il Tribunale si convinse che la sostituzione di persona, tanto per cominciare, non avvenne affatto e rimase in attesa di una decisione per chiarire la subordinata della incapacità di intendere della testatrice o la scarsa professionalità del notaio.

Discorsi ascoltati da dietro i muri, sentito dire, padri che si vendicarono della seduzione della figlia e cose così furono gli argomenti che convinsero la Corte che a lasciare le sue volontà al notaio Giovanni Valente da Poggiardo fosse la vera Assunta.

Si presentarono nei racconti dei testi ben due possibili false Assunte, una per iniziativa del padre della beneficata nipote vastese, l’altra dal marito della nipote del ramo Cazzato. Ovviamente tra i si dice e mi pare di avere sentito nulla superò l’evidenza della corporatura alta e snella della vera Assunta Abate. Non v’erano dunque  dubbi che la donna che si presentò al notaio poggiardese in una piccola casa di campagna in località San Vito non fosse tale Carluccio Enrichetta o la più testimoniata Donata Valente, entrambe basse e tarchiate.

Più difficile fu discernere sulla capacità di intendere della testatrice tra il febbraio e l’ottobre del 1923. Alla fine del 1925 Assunta morì completamente incapace di ogni volontà e questo fu confermato da tutti i testimoni, tra cui i più autorevoli del paese: Don Raffaele Maggio il prete e Antonio De Luca medico condotto.

L’Ippazio, tra le due sponde del febbraio 1923 data del primo testamento in suo favore e l’ottobre dello stesso anno, data del secondo testamento che lo escludeva, sostiene che nonna impazzì nella media aritmetica del giugno di quell’anno. Salvava così il suo testamento e annullava quello delle cugine.

Da dire che il primo grado di giudizio si concluse nel 1929 che, esclusa la sostituzione di persona, restava comunque valida la capacità della testatrice e consegnò la ragione all’Ippazio.

Il corso della lite cominciò quando le due cugine, forti del secondo testamento, cercarono di entrare nel possesso degli immobili e trovarono la resistenza del cugino e si trovarono costrette a portarlo in tribunale vantando la bontà dei documenti in loro favore. Ippazio, non solo non lasciò i campi, ma resistette sostenendo la nullità delle carte in mano alle parenti. Accusò, coi si dic di paese, i genitori delle due di aver portato rispettivamente due false Assunte davanti a un notaio, e in subordine che il notaio non aveva controllato le capacità della donna e che comunque nell’ottobre del 1923 Assunta era già fuori di testa.

La corte della prima sezione del Tribunale Civile di Lecce, allora presieduta da Bacile di Castiglione e Cataldo Motta, forse avo di qualche giudice ancora in servizio, diede mezza ragione alle cugine escludendo velocemente la sostituzione di persona e successivamente confermò l’incapacità di intendere lasciando la roba in mano all’Ippazio. Le due cugine si appelllarono vincendo presso il Tribunale di Bari, Ippazio impugnò tutto in Cassazione.

 

Basta citare un po’ di nomi e cognomi per capire come la faccenda della idiozia della Abate portò al banco dei testimoni mezzo paese: De Luca Giorgio, Buffo Giuseppe, i calzolai padre e figlio Ginnelli Ippazio e Giuseppe, altro calzolaio Rizzo Pasquale, l’avvocato Rizzelli Enrico, il ragioniere Antonazzo Giovanni, i farmacisti Mauro Tommaso e Tronci Luigi, il muratore Giannetta Giuseppe, il medico De Luca Antonio e a salire il prete Don Raffaele Maggio e il Sindaco Podestà del paese Tronci Andrea.

Si disse che l’Assunta aveva cercato di mettere fuoco alla casa del nipote dove dimorava da vedova, che si voleva buttare dalla terrazza per raggiungere il marito, che voleva maritarsi di nuovo, ma pure che almeno fino a pochi mesi della sua morte nel 1925 era perfettamente cosciente e lucida. Una parte sosteneva che l’Assunta non usciva di casa se non scortata dal nipote, un’altra riferiva che ogni giorno l’Assunta si recava da sola a vedere la sua vecchia casa maritale.

Il pittore Casciaro Giuseppe che le fa visita insieme al Sindaco testimonia pure lui confondendo persino l’anno. Si ascoltano inotre Carluccio Enrichetta, quale possibile sosia, Pede Vito marito dell’altra sosia, Carluccio Gabriele, Carrozzo Rosa, Coluccia Gabriele, Buffo Giuseppe, Valente Donata altra sosia, Massafra Adelaide, Lucarelli Anita amica, Pede Fiorello, Capone Pietro, Longo Alfio e un po’ di altri paesani cme dei De Giampaoli, dei Martano e ecc..

Un ragioniere afferma di aver visto l’Assunta sola per strada in occasione della Fiera di San Vito  la prima domenica di ottobre del 1923 che le riferisce di aver fatto un nuovo testamento. Il Sig. Sindaco Podesta, avvocato cavaliere Tronci Andrea, presidente della Congregazione di Carità e Segretario Politico di Ortelle dovrà presentare una certificazione che la Fiera di San Vito si svolge nella quarta e non nella prima domenica di quel mese. Il fatto è sostanziale in quanto il secondo testamento sarebbe già stato fatto e le parole rierite dal teste solo così risultano coerenti nello spazio e nel tempo.

 Il sindaco Tronci Andrea e il pittore Casciaro Giuseppe si confondono tra il marzo del 1923 e il marzo del 1925 riferendo retrodatando la demenza dell’Assunta di due anni. Il Casciaro si correggerà con una memoria scritta.

Le cugine, soccombenti nel primo grado, portano questa massa di testimonianze in appello davanti al Tribunale Civile di Bari. L’istanza accompagnata da note autorizzate dello studio legale Brizio Gabrieli e dalla Comparsa conclusionale dello studio Perta, tipografate e rilegate, ci sono giunte in originale.

La vertenza per “pretesa nullità di testamento per sostituzione di persona, per infermità di mente e per violazione dell’art. 778 del codice civile” il 4 agosto del 1930 viene chiusa in favore delle due cugine e all’Ippazio non resta che produrre ricorso in Cassazione nell’aprile dell’anno successivo.

La forza dell’appello delle cugine è tutta nelle mancate denunce penali che l’Ippazio non presenta pur adducendo reati di non poco conto. Un testamento notarile resta valido se non annullato per denuncia di falso.

Su chi siano andate quelle terre probabilmente i vecchi del paese lo hanno già intuito e forse fu una di quelle faccende paesane che, nello schieramento testimoniale,  videro formarsi  le vecchie divisioni tra famiglie ortellesi o forse furono solo la manifestazione di quelle già esistenti.

Metà dei testimoni furono portati a testimoniare l’inutile chiacchiericcio, l’altra metà si divise tra onesti e spergiuri.

Tra i quadretti da ricordare certamente il controllo a uomo della famiglia del nipote benificato sulla testatrice affinché non restasse mai sola a fare magari carte diversamente disponenti; il tipo che confida di aver testimoniato solo per vendicare la seduzione della figlia da parte di un parente degli attori, o la spiegazione fatta da un avvocato sul modo subdolo di creare un testimone in buona fede in proprio favore.

Sono anni di inizio secolo dove la differenza tra l’indigenza a il benessere passa dal possesso di una casa di proprietà e qualche ettaro di terra buona. Forse fu solo l’orgoglio ferito di un nipote che si porta in casa una zia rimasta vedova convinto di aver spazzolato tutto.

La realtà fu forse più pittoresca di quello che si immagina leggendo le tesi degli avvocati in perfetto italiano e in corpo tipografico. Una massa di contadini portata nelle aule di un tribunale leccese a spiccicare frasi forse imparate a memoria tradotti col vestito buono dalla littorina di Poggiardo.

I testimoni veri con l’ansia di fare una bella figura, quelli spergiuri con la paura dei ceppi.




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