Il mio San Vito – 12 – Le cicureddhre
Era l’ampio spazio centrale piano e lisciato. Una strada sterrata lo spaccava in due da levante a ponente. Dopo le rocce e le spine della parte più a sud, qui c’era una vasta zona di prato spontaneo. Ci nascevano un paio di varietà di foglie di campo che gruppi di donne raccoglievano nei pomeriggi. Eppure il fondo sembrava di tufo compatto, ma sopra ci nasceva un’erbetta naturale, bella verde, che contrastava con l’aridità del resto e delle campagne intorno.
Si dice che le foglie di campo nascono numerose laddove non si ara da molto tempo oppure dove si è sparpagliato letame domestico propagando i semi delle piante. Se così è, quelle foglie di campo non ci stavano lì da molto. Quella zona centrale era stata persino coltivata e arata per molti anni e più generazioni.
Era infatti un campicello che il Comune di Ortelle affittava alla famiglia Circhetta da molti anni almeno fino alla guerra mondiale.
I Circhetta a San Vito erano di casa anche se a differenza di noi lo frequentavano solo per lavoro. Prima per coltivare in passato quel campicello e poi per passarci ogni oggi per andare a lavorare nella loro fattoria un po più avanti verso Spongano. Non si facevano distrarre dai giochi pomeridiani e non li ricordo praticare molto il pallone. I fratelli Circhetta a Ortelle erano una vera e propria associazione aperta a tutti. Da loro si passava il tempo tra mucche e trattori facendo cose da grandi in compagnia di tanti altri ragazzi. Avevano un fascino incredibile e questa fascinazione che avevano sui ragazzi del paese l’hanno rosicata in parecchi e a lungo.
Il padre Mario, figlio del vastese Cirino, morì abbastanza giovane lasciando tre figli maschi e una femmina a portare avanti l’azienda. La sorella di Mario, Olanda, sposata a Vignacastrisi come la sorella Contina, raccontava al figlio Antonio che quel campo lo coltivavano addirittura dai tempi di suo padre Cirino e persino lei, Olanda aveva arato quel campo con l’aratro e il bue.
L’aratro tirato dal bue in Ortelle deve essere stata una pratica usata fino a non molto tempo fa se anche mio padre, nato nel 1927, ricorda che pure la famiglia di mia madre, negli anni del fidanzamento, arava le terre con la vacca, perchè tenere un vero e proprio bue nella stalla solo per arare era un lusso troppo grande per molti.
E’ curioso come il De Giorgi nei sui bozzetti di viaggio descriva Ortelle come un paese di contadini che ancora praticano l’agricoltura coi sistemi dei tempi di Abramo. Probabilmente avrà visto anche lui, passando per i campi, un sacco di vacche tirare poveri aratri di legno.
In effetti il fondo di quella spianata non era di tufo. Te ne accorgevi ad ottobre quando i commercianti delle povere bancarelle venivano a segnarsi per terra il posto da occupare per la Fiera di San Vito. Non c’erano prenotazioni, planimetrie e la scelta del posto si svolgeva segnando sul terreno con la zappetta un piccolo solco giusto la dimensione della baracca da metterci su. Qualcuno aggiungeva delle pietre nei vertici a rinforzare il concetto che li c’era passato prima lui prima di ogni altro. In quell’occasione si poteva notare al fondo del solco la terra rossa che nel tempo si era stata coperta dalla tufina. Probabilmente i Circhetta la coltivavano con l’impegno di lasciarla libera nei giorni della Fiera e l’area coltivata non era segnata da muri o dislivelli e non si capiva da dove iniziave e finiva col resto della spianata.
A nord era segnata dalla stradina che portava alla Cappella, a sud una strada che collegava il paese ai Campi di San Vito, tanti piccoli campicelli ex demaniali spartiti tra tanti morti di fame per dargli un minimo di sostentamento. Su questa strada sterrata e quasi piana a turno ci sono passati a galoppo, pancia a terra, tutti i fratelli Circhetta. Il grande, Vittorio, diventato troppo presto capofamiglia, Gigi quasi coetaneo e complice di molte cose e il mio coetaneo Giorgio scomparso appena diventato grande. Passato l’asfalto della pericolosa provinciale Poggiardo-Diso, montato a pelo e per redini delle grosse funi, si cominciavano a sentire le prime zoccolate dure sul terreno. Ci si fermeva a guardare aspettando di veder spuntare cavallo e cavaliere dopo il primo stratto di stradina chiusa. Erano almeno trecento metri lanciati a galoppo che spesso continuavano per tutta la vicinale fino alla loro masseria in assoluta ammirazione. Chi giocava, si fermava e stava attento a dare strada.
Era rivoluzionario San Vito, era modernissimo senza saperlo. Poi lo urbanizzarono e uccisero lo spazio. Fino all’idiozia più recente di chiuderne con le sbarre una parte. C’è da riflettere su questa urbanistica recente che taglia la roccia, spiana le tagliate, riveste tutto di cemento. E ancora mette fioriere dappertutto, pali e cestini di ghisa e tra un po anche le tende coi quadri.
La stessa idiozia che porta a tagliare una parette di roccia viva lisciata da milioni di anni con l’erba infilata nelle fessure per poi rivestirla con la stessa pietra giuntata con la malta di cemento. Che non si dica che siamo poveri e che non abbiamo combinato nulla nella nostra vita di uomini e di sindaci.
E’ poi la malattia dell’horror vacui, per cui appena c’è un po di spazio vuoto va assolutamente riempito con qualcosa, fosse un albero, un palo e la milionesima statua di cemento di padre Pio. E poi ad osservare i quattro spazi vuoti che si generano dal nuovo ostacolo centrale e pensare di riempirli di qualcosa e poi a guardare ancora i nuovi sottospazi liberi e pensare di riempirli fino a che in quel posto preziossimo in cui si attendavano i più grandi circhi o ci si poteva imparare a guidare l’automobile non si può più passare nemeno col passeggino.
San Vito doveva sopravvivere solo qualche anno, fino a vedere il tempo dei vincoli paesaggistici e forse si sarebbe salvato. Con le due ore naturali, le tagliate dei tufi, le rocce e le foglie di campo. Oggi c’è solo asfalto e cemento, con gli alberi ammaestrati che per dispetto non ne vogliono sapere di crescere.
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