30 Dicembre 2018 in Blog, Notizie, Territorio, Tradizioni

La Panificazione tradizionale – Il Forno a legna

La Panificazione tradizione – Il forno a legna

Definiamo panificazione tradizione, nell’ambito di questo breve articolo, la produzione di pane per l’alimentazione con la cottura all’interno di un forno alimentato a legna, e grosso modo secondo  le modalità universali e plurisecolari utilizzate prima dell’avvento della energia elettrica e del gas e quindi della industrializzazione del processo.

Prenderemo ad esempio di panificazione tradizionale le modalità di produzione svolte in un sistema con alla base forno a legna dell’area salentina, che presenta alcune peculiarità per via della disponibilità di particolari materiali costruttivi, ma che non si differenzia da altri sistemi in tutte le parti del mondo per via di essenziali processi alla base della lievitazione e della cottura del pane.

Parliamo di sistema in quanto spesso col termine di forno a legna intendiamo o ci focalizziamo nel ridotto vano chiuso di cottura senza considerare le complessità della produzione dell’alimento in epoche dove la preparazione e la cottura stessa non erano assistite, come nell’attuale processo industriale, da comode fonti di calore, da energia meccanica di qualsiasi potenza, da distribuzione idrica e da adeguata illuminazione notturna.

Fare il pane è, come tante altre cose, fare la guerra. Serve l’organico, la strategia e la logistica. In questo articolo ci concentreremo sul terzo aspetto vale a dire su quanto necessario ed indispensabile a ottenere il risultato finale avendo a disposizione personale e procedure alla bisogna. A differenza della guerra, sempre mutevole, il pane si produce mediante una buona costanza dei tre elementi ed anzi lo sforzo principale consiste nel garantire l’osservanza delle condizioni alla base e a contorno del processo.

Ogni variazione alla natura, alle grandezze e ai tempi del processo poteva portare o a nuove positive scoperte o a più facili disastri.

Analizzeremo la conformazione di un tipico forno a legna salentino, dalla camera di cottura fino a tutto l’edificio interno, dagli arredi fissi e mobili e alle altre dotazioni indispensabili, con qualche accenno tecnico che possa far interessare questo articolo a chi ne voglia costruire uno ex novo.

In giro non si ritrovano molti manuali e questo perché la costruzione di un sistema di forno a legna seguiva una procedura di tipo piuttosto copiativo di esempi già realizzati in loco mediante competenze e conoscenze orali o mnemoniche che assicuravano la costanza del processo alla regola e quindi al buon esito finale.

Con la scomparsa delle vecchie maestranze è più facile ritrovare nuovi forni realizzati con tecniche e materiali  spesso di inventiva con esiti non sempre positivi per via dell’alterazione di parametri fondamentali specie nella gestione e distribuzione del calore.

Quanto di arcaico ci fosse nel processo plurisecolare arrivato fino alla metà del secolo scorso basti pensare ai lunghi tempi di cottura anche in ore notturne senza l’ausilio della illuminazione elettrica, senza un acquedotto che erogasse acqua potabile in qualunque periodo dell’anno, senza una impastatrice meccanica, senza termometri di controllo e altri piccoli ausili entrati  pian piano con gli anni nel processo.

Chi conosce i processi che partono dall’impasto con l’acqua della farina fino alla sfornatura del pane è di molto aiutato. E quindi conosce le regole che impone una qualunque ricetta che va ripetuta sempre a copione ma con la difficoltà di dover gestire in questo caso in una sola volta l’impasto di due o anche più quintali di farina, quantitativo usuale per la produzione contestuale di pane fresco e di una grande scorta di pane secco.

Il processo della panificazione tradizionale nell’area salentina si svolgeva in genere per le classi più agiate in piccoli forni di proprietà collegati alla residenza con ricorrenze molto brevi, o in forni sempre di proprietà più grandi dati in uso ad altri nei periodi di inutilizzo, oppure veri e propri forni sempre privati costruiti appositamente per un uso comunitario. Una comunità di frati, un carcere, una caserma poteva disporre di un proprio forno dimensionato generalmente per la produzione ricorrente di pane fresco.

Un paese di duemila abitanti, prima dell’arrivo della rosetta nei negozi, disponeva di almeno tre forni comunitari in genere realizzati da un privato e dati in uso su un periodo di uno-due giorni a chi ne aveva bisogno. Il proprietario del forno arredava l’ambiente con una dotazione di arredi fissi e mobili necessari al processo richiedendo un corrispettivo in denaro o altro. A lui competeva assicurare l’efficienza della dote del forno, la provvista d’acqua, lo smaltimento delle ceneri, la guerra con il locale Ufficio Igiene e i rimproveri per gli schiamazzi notturni.

Gli utenti erano in genere famiglie che intendevano cuocere pane fresco e farsi la tradizionale scorta di pane secco biscottato (friseddre), a volte allargate all’intero clan familiare o a vicini di casa che partecipavano in quota di farina. La singola cotta comunque non era mai sottodimensionata rispetto alla capienza massima del forno per ragioni di economicità di spesa e per arrivare al quantitativo giusto di farina potevano verificarsi diverse sinergie tra gli utenti.

Legare i processi e le attrezzature della panificazione tra i vari utenti che si intervallavano senza soluzione di continuità, le condizioni termiche del forno, la gestione dei lieviti era compito del fornaio, una figura costante che spesso monopolizzava uno dei forni del paese. Il fornaio garantiva la conservazione dei lieviti appena utilizzati nell’impasto precedente (criscente), assicurava la pulizia degli ambienti al termine del processo, attendeva al nuovo impasto e alla giusta lievitazione e poi al confezionamento dei vari pezzi, alla supervisione della temperatura del forno, all’infornatura ed ogni altro imprevisto che non fosse nelle conoscenze minime di almeno uno dei sodali utilizzatori.

Pertanto alla famiglia che utilizzava il forno erano sufficiente la conoscenza di base della panificazione, la fornitura di forza lavoro, la sorveglianza e tutte quelle operazioni che non comportavano le specifiche conoscenze e abilità del fornaio.

Il fornaio di fiducia, ma più spesso il fornaio che sposava a vita quel forno, era pagato dall’utilizzatore e la continua ininterrotta panificazione all’interno di quel forno assicurava un vero e proprio impiego lavorativo e gli assicurava un ristoro anche in pane fresco per la famiglia.

Inquadrato il periodo storico e le attività svolte in un tipico forno a legna di tipo comunitario a cui ci riferimento in questo articolo andremo ad analizzare il sistema ambiente-forno-dotazioni che consentivano lo svolgimento positivo del processo.

L’analisi del singolo elemento e le ragioni della sua forma o del suo materiale concorreranno a spiegare a ritroso  a partire dal livello logistico sviluppato più avanti, le ragioni e le basi della panificazioni in senso più generale.

Il Contenitore

Il forno a legna è sempre all’interno di un ambiente più grande e protetto. I processi di lievitazione e i lunghi tempi di cottura richiedono la presenza di un ambiente che assicuri il migliore confort possibile sia alle persone che agli impasti e alla protezione dalle condizioni atmosferiche sfavorevoli non potendosi interrompere il processo.

Il processo in genere si avviava nel primo pomeriggio con l’avvicinamento al forno di una sufficiente scorta di fascine per il riscaldamento del forno, il trasporto delle farine, dei vari commiti personali e terminava nel pomeriggio successivo con il riporto a casa delle ceste del pane secco e la pulizia del forno. In ogni pomeriggio pertanto si verificava un passaggio della chiave del portone del forno tra uscenti ed entranti senza interruzioni. Partire con un nuovo processo in un forno non completamente freddo e con un po’ di pasta lievitata del giorno prima assicurava un risparmio di fascine e la dispensa dall’acquisto di nuovo lievito. 

Nato ex novo o adattato in una abitazione già esistente un forno richiede lo spazio di due vani comunicanti voltati classici della tradizione in muratura. Due vani delle dimensioni di 5×5 metri per una superficie netta di 50,00 mq consentono l’inserimento di una camera di cottura e dell’ambiente operativo.

Il locale di preparazione generalmente con accesso diretto alla strada di adeguata altezza per garantire la manovra dei vari forconi, la scorta di adeguata ossigenazione e una divisione tra i flussi di aria fresca in alto  indirizzati alla combustione del forno e la zona di calma in basso dove sono presenti gli operatori.

Il secondo vano, posteriore, in genere senza aperture, ospitante il forno vero e proprio poteva essere più basso ma spesso si presentava di uguale quota dell’intradosso e pertanto divisibile in due volumi: quello in basso destinato alla camera di cottura non superiore ai tre metri partendo dal piano operativo e quello in alto dove veniva ricavato un forno passivo (furneddru) che recuperando il calore del forno sottostante consentiva di tostare cereali, nocciole e altra frutta secca. Si accedeva a questo fornello da una scala propria in pietra ed era accessibile anche a forno acceso in quanto non si raggiungevano temperature proibitive. Veniva utilizzato dai venditori di nocciole, arachidi, noci e altra frutta secca per ravvivare il prodotto nell’immediatezza della vendita o per darli una certa croccantezza. In genere la tostatura vera e propria dei legumi o dei fichi secchi veniva fatta nel forno principale a temperature più elevate per garantire la sterilità e la conservabilità del prodotto ma in questo caso al venditore ambulante la temperatura più bassa intorno ai 50°C massimo era comunque proficua. La presenza di prodotto nel fornello poteva durare anche settimane per cui il suo accesso era sempre protetto da una porta con lucchetto per evitarne l’accesso incontrollato. Per questo utilizzo del fornello nulla era dovuto al panificatore ma solo al proprietario del forno secondo accordi di volta in volta.

La necessità di creare la bocca della camera di cottura al centro della ideale parete posteriore del vano operativo, in pratica al centro esatto della superficie complessiva dei due vani era dettata da esigenze operative e funzionali inderogabili tra cui quella di dover operare con palette e forconi in ogni direzione per cui il posizionamento della bocca in prossimità di una parete laterale avrebbe impedito o condizionato la rotazione dei manici degli attrezzi da forno.

Ipotizzando una camera del diametro di tre metri e aggiungendo un ulteriore tratto di presa di un metro ai vari forconi per la pulizia e l’infornatura e quant’altro di cui diremo successivamente, lo spazio di manovra dei manici all’uscita della bocca specie nelle posizioni meno assiali diventa abbastanza ampio e non poteva essere impedito da alcun ostacolo.

Pertanto lo spazio che unisce i due vani è interamente occupato da sistema della bocca del forno che assolve a più funzioni. Oltre alla bocca che consente l’alimentazione del combustibile nella fase di riscaldamento e al camino di evacuazione dei fumi immediatamente al di sopra della bocca stessa su questa parete è fissato un comodo piano di appoggio in prossimità della bocca, qualche armadio a muro per il posizionamento di piccoli comodi (carta, fiammiferi, lucerne, ecc.. ) o anche la parte finale delle pale e dei forconi, e in basso una rientranza affossata utilizzata per la raccolta della cenere, il deposito di ciocchi di legna o semplicemente per la spazzatura grossa del pavimento. La struttura presenta una evidente simmetria sia orizzontale che verticale specie in prossimità della bocca. Sulla parete è possibile trovare anche l’accesso alla scaletta che porta al fornello superiore.

Il contenitore esterno pertanto poteva apparire come un normale edificio residenziale, inserito in una schiera di casette se non per una certa altezza superiore. Posto sempre a piano terra poteva disporre di uno spazio esterno più o meno protetto per lo stoccaggio delle fascine o lo smaltimento immediato delle ceneri.

La copertura solare, in genere lastricata, assicurava il riempimento con le acque piovane di una cisterna, sempre presente ed indispensabile al sistema.

Il Vano operativo

Definiamo il vano operativo quello spazio chiuso e protetto avanti alla bocca del forno. In esso si svolgevano tutte le operazioni della panificazione secondo procedure che consentivano la presenza a volte anche contemporanea ma separata di aree sporche e aree pulite secondo un criterio ancora oggi imposto da norme sanitarie nella produzione e nella ristorazione alimentare.

Tale ambiente delle misure non inferiori a 5,00 x 5,00 ml e sufficientemente alto è diviso nella prima fase della panificazione in due aree, un destinata alle farine e ai pani in lavorazione una alla gestione della legna di alimentazione del forno in alcuni momenti del processo.

Credo che la maggiore presenza di destri nella popolazione rispetto ai mancini abbia imposto alcuni posizionamenti ricorrenti nei vari forni osservati come ad esempio il posizionamento sempre a sinistra immediatamente dentro la bocca del forno del fuoco residuo di mantenimento, come succede più spesso nei vari forni delle pizzerie di oggi, oppure il posizionamento dei forconi all’esterno sulla destra facilmente imbracciabili dal braccio destro maggiormente muscolato.

Il vano, nella ristrettezza di spazio in cui è spesso definito per ragioni di economia, nell’arco delle 24 ore necessarie alla panificazione si trova ad avere funzioni di volta in volta mutevoli assecondando i processi fisici e organici in evoluzione.

La maggiore esigenza di spazio si quando si alimenta il forno per il primo riscaldamento e contemporaneamente il maggior numero di organico attende alla lavorazione dell’impasto e la formazione dei pezzi. Le due fasi terminano nel medesimo periodo grosso modo nel al tramonto della prima giornata.

In caso di inclemenza del tempo all’interno dal vano è possibile che serva un ulteriore spazio per il ricovero all’asciutto di tutta la scorta di materiale combustibile.

Prendendo ad esempio l’ultimo forno comunitario di Ortelle, ormai smontato, di proprietà Coppola, che rappresentava un buon prototipo essenziale ma completo dei forni comunitari attrezzati per la produzione di pane secco, nell’ambiente operativo troviamo la zona delle farine sulla sinistra e la zona delle fascine sulla destra. L’operatore che alimenta il fuoco di riscaldamento opererà sulla destra rispetto all’ingresso avendo cura a non sporcare di foglie o rametti gli impasti (in realtà sempre protetti da tovaglie) mentre sulla sinistra opereranno gli operatori interessati agli impasti.

L’ambiente è servito da una cisterna che presenta la bocca di tiro all’interno. Sono acque piovane raccolte dai lastricati durante certi periodi dell’anno la cui potabilità non è garantita. Per questo spesso l’acqua, almeno quella dell’impasto, veniva portata da casa da cisterne più pulite o dopo gli anni quaranta da una delle fontanine pubbliche dell’Acquedotto Pugliese.

La prima acqua per sciogliere il lievito o il crescente, se non tutta l’acqua di impasto, veniva lasciata un po’ nel forno ancora caldo della panificazione precedente, specie in inverno. Per questo si usavano recipienti in metallo, secchi o quartare portati da casa.

Il resto delle esigenze di acqua, tirate su a mano con un secchio in dotazione del forno, quindi era limitato alla pulizia dei vari commiti, dei tavoli, delle madie, dei forconi e del pavimento e per questo andava bene l’acqua della cisterna interna in ogni caso.

Parlando di farine, fascine e acqua bisogna evidenziare come il processo della panificazione per quanto complesso era solo il termine di tre processi fondamentali nella cultura agro-alimentare dell’uomo.

La prima la produzione di alimenti conservabili per i periodi meno favorevoli dell’anno o di carestia che potessero fornire calorie in modo continuativo e in questo le farine e le semole di cereali o come i legumi o  la frutta secca come pure insaccati o pesce essiccato o salato lo consentivano. Un processo quello delle farine iniziato con le arature e le semine autunnali e la raccolta nell’estate successiva.

La seconda la raccolta e lo stoccaggio di legna e ramaglie di qualunque tipo per il riscaldamento del forno. Anche questo un processo lungo che impegnava nella raccolta degli scarti delle potature e dello sfalcio di qualunque vegetale con una buona presenza di cellulosa. Rametti di prima qualità come quelli ottenuti dalla potatura degli ulivi erano impiegati preferibilmente per la cottura casalinga che prima dell’avvento delle bombole di gas avveniva in focolare, per cui un buon preriscaldo del forno poteva avvenire con qualunque combustibile da sfalcio, l’importante che non producesse eccessiva cenere, ma alla bisogna anche le stoppie del grano e dell’orzo andavano bene, come pure i fusti delle leguminose dopo la raccolta del seme. Di un certo valore anche i rovi e le spine che erano continuamente falciati assicurando in questo modo la pulizia dei fondi, dei muri e dei marciapiedi ed evitando le infestazioni ormai endemiche di questi decenni.

In ultimo il terzo processo, quello di raccolta dell’acqua piovana che nella Puglia salentina assicurava i bisogni idrici fondamentali. Dalla pulizia annuale della cisterna, ai lavaggi delle coperture alle prime acque autunnali, alla raccolta invernale e poi alla separazione di nuove immissioni fino allo svuotamento annuale, la disponibilità di acqua potabile o che almeno non puzzasse, era garantita da una lunga e attenta sorveglianza.

Non si poteva procedere alla panificazione se non tutti e tre i processi preliminari, svolti su un arco temporale annuo, fossero completati insieme. La disponibilità di acque potabili da rete ha emancipato dal processo di raccolta delle acque, l’arrivo delle bombole di gas in ogni casa ha consentito l’utilizzo esclusivo delle potature degli ulivi ai forni a legna, mentre il processo di produzione delle farine è rimasto immutato.

Benché i costi delle farine fossero piuttosto bassi ed abbordabili con il boom economico alla panificazione tradizionale hanno perseverato solo famiglie di piccoli contadini che producevano farine in proprio. Il resto dei salariati e degli impiegati si è indirizzato all’acquisto diretto del pane industriale.

L’ambiente architettonico si completa ovviamente di una porta di ingresso abbastanza larga, ma non eccessiva e da un finestrone in alto sulla stessa manovrabile dal basso secondo le varie fasi del processo. Nei periodi invernali il flusso d’aria pulita per il ricambio d’aria e la combustione del fuoco era assicurato dal solo finestrone in alto che limitava le correnti d’aria dirette in basso verso i presenti. La pulizia dell’aria viziata era comunque assicurata dall’evacuazioni dei fumi dal camino principale che provvedeva anche indirettamente al lavaggio di tutto l’ambiente.

Tutto il processo dal punto di vista igienico-sanitario era comunque affidato alla sicura sterilizzazione dell’impasto nella camera di cottura.

Gli arredi fissi

Tutti ospitati nel vano operativo potevano considerarsi esaustivi   in un semplice ripiano in muratura per poggiare i sacchi di farina prima dell’impasto, da una panca per sedersi o poggiare in alto ceste o altro, alcuni stipi nelle murature come armadi sprovvisti di anta di chiusura e alcune rastrelliere a muro su cui poggiare le tavole del pane. Le rastrelliere erano utilizzate alla fine del processo di scanatura dell’impasto allorquando si formavano i pezzi, sia la prima informata di pane secco che di panetti freschi. Le tavole via via  riempite di forme alla misura andavano parcheggiate sulle rastrelliere in attesa dell’infornata generale. Venivano ancora utilizzate per poggiare i pezzi dopo le varie cotture in attesa della fase di raffreddamento e di deumidificazione. Le tavole, come tutte gli altri arredi esattamente dimensionati per la massima capacità produttiva della camera di cottura.

Arredi mobili

Quelli forniti dal proprietario come dote del forno erano costituiti:

– da una o più madie, la mattra, un vasca di legno a nudo in cui si impastava per la prima volta la farina con l’acqua e il lievito. Aveva una forma svasata per assecondare la crescita dell’impasto e la pulizia. Un forno da 3,00 ml di diametro ne disponeva di due una di circa 1’000 litri e una più piccola di riserva per eventuali eccedenze o panificazioni ridotte. Tolta dai muri a cui era appesa veniva pulita e posta al centro della stanza anche per terra. Specie in un forno con ambiente piccolo era l’unico posto dove non intralciava la manovra dei forconi che gli passavano alla bisogna sopra. Sciolto il lievito con l’acqua tiepida e poi disperso direttamente nella madia o indirettamente con un impasto intermedio più fluido di acqua lievito e farina, si rimescolava fino a una certa sgrumatura della farina. Concetti come far assorbire la maggiore quantità d’acqua possibile all’impasto non erano praticati e nemmeno concepiti. Forse neppure la sgrumatura era perfetta, fatto sta che lavorare un impasto di due quintali di farina con le mani di due tre persone era già un lavoraccio. Impastatrici e planetarie per quelle quantità avrebbero avuto bisogno oggi di una fornitura elettrica del tipo trifase e un assorbimento di potenza non inferire a 10 kW. Il forno generalmente disponeva di un semplice interruttore per una luce centrale e nessuna presa.

L’impasto era la prima operazione da farsi nel primo pomeriggio, la lievitazione sarebbe andata vanti anche senza sorveglianza per tre-quattro ore. Protetta da lenzuoli o i sacchi delle farine ormai svuotati i 200-300 litri di impasto avrebbero raggiunto al tramonto un livello poco sotto l’orlo della madia.   

– da un tavolo massiccio abbastanza resistente alle spinte orizzontali della scanatura degli impasti. Su questo tavolo a legno nudo si lavorava l’impasto per la formazione di una maglia adeguata di glutine non facendo differenza tra pane da cuocere fresco o quello da biscottare. Ovviamente nessuno degli operatori conosceva nozioni di glutine, di maglia glutinica o altre infatuazioni delle panificazioni recenti dove la scienza ha finalmente spiegato le ragioni che la consuetudine antica imponeva senza capirne la ragione. Il tavolo dapprima posto alla parete veniva portato in avanti per operare con una doppia fila di operatori. A scanare erano esclusivamente le donne che ne approfittavano per lo scambio di confidenze e commenti sarcastici a cui non erano estranee neppure le nonne o le donne più compite. Era questo il momento della massima presenza di organico nel forno, tra l’addetto al forno in genere il maschio di casa, il fornaio, in genere una donna matura, le scanatrici e qualche bambino all’interno del modesto vano si arrivava a una decina di persone. Vicini e parenti si facevano trovare al primo tramonto per dare aiuto in cambio di un po’ di pane fresco o di un successivo ricambio di favori alla propria panificazione.

L’impasto  lievitato nella madia, spesso lasciata a terra nel centro della stanza protetta da lenzuoli per isolamento termico e inquinamento, tagliato a pezzi con un coltello veniva lavorato sul tavolo fino a che era sgrumato e oggi diremmo con adeguata forza della maglia glutinica. Dal pezzo scanato di circa un chilo o più veniva formato il pezzo a cupoletta per fare il pane fresco o una sua variante a mollica meno vacuolata chiamata semplicemente panetto, destinato anche ad essere grattato nel caso restasse invecchiato.

Con l’arrivo dei pani baresi come quelli di Altamura o lucani di Matera, o con le pezzature dei forni industriali locali i nomi associati alle varietà di pane hanno avuto una fioritura e una sovrapposizione e una confusione per cui quando chiedi una puccia non sai più che ti sarà servito. Nella tradizione locale il pane da tagliare a fette è sempre stato chiamato semplicemente pane fresco per distinguerlo da quello da conservare (friseddre), con la variante a panetto di cui sopra. Un pezzo di pane fresco più piccolo da smembrare a mano o sbocconcellare, con o senza altri ingredienti dentro, veniva chiamato puccia. La più famosa quella della Immacolata, una piccola pagnotta con olive dentro. Se nell’impasto si aggiungeva olio si entrava nei pani speciali come le cucuzzate o le pirille.

Per fare le friseddre da biscottare dall’impasto scanato si ritagliava un pezzo da stendere a losanga da passare al fornaio, l’unico comodamente seduto in tutto il processo a una banchetta tutta sua.

– da un tavolino (banchiteddra) a cui era accomodato seduto il fornaio. La linea di scanatura operava in catena. L’impasto passava via via più raffinato verso il fornaio fino all’ultimo operatore che per la gestione dell’impasto era bravo quanto il fornaio stesso. Una sorte di vice capo o di fornaio in pectore. Decideva la consistenza e la dimensione dei pezzi da tagliere e formare e passava le losanghe delle friseddre al fornaio. Con gesto ripetuto il fornaio conformava la losanga e la arrotolava per formare il primo pezzo da cuocere, una specie di involtino che veniva posto sulle tavole affianco agli altri rotoli che inevitabilmente accrescevano. La lievitazioni iniziale, difatti, riprende un certo vigore dopo la scanatura per via della immissione di nuovo ossigeno nella pasta. Per questo le friseddre hanno un angolo piatto da almeno due orli. E’ l’impronta dell’attaccatura di un pezzo con gli altri contigui al gonfiare prima ancora di essere infornati. E il fondo piatto del pezzo poggiato sulla tavola sarà quello che distinguerà la forma di friseddra  col fondo chiatto e più duro.

– da una serie di attrezzi per la camera di cottura, da un forcone vero e proprio per aiutarsi a spingere dentro le fascine, da una paletta verticale in ferro con il primo tratto di manico sempre in ferro per tirare fuori le braci e la cenere dopo il riscaldamento, da una o più palette interamente in legno pieno per infornare  e un tirapane in legno con manico in canna leggero per tirare fuori il pane. Pulito dalle ceneri il forno va scopato per togliere ogni traccia di cenere che si andrebbe ad attaccare al fondo dei pezzi in cottura, o almeno quello che è possibile e a questo provvede uno scopone fatto di qualunque soluzione intinto di volta in volta in una piletta piana d’acqua in prossimità della bocca. La ramazza finale che andrà a contatto con il fondo del forno può essere fatta di fogliame di alloro, lentisco, fracilisca o anche di straccio tipo mocio. La temperatura all’interno del forno è ben oltre la temperatura di autocombustione e quindi è bene immergere lo scopone più volte a ogni due tre spazzate. Tirato fuori il grosso della cenere con la paletta verticale metallica, lo scopone provvede a sposare con un movimento a strisciare le ceneri verso il lato avanti a sinistra ma sempre all’interno della bocca dove un po’ di braci possono restare latenti in attesa di essere ravvivate o per operazioni di emergenza in caso si verificasse il forno troppo freddo.

Gli arredi descritti nelle varie fasi cambiano spesso di posto. Il tavolo finita la scanatura ritorna al suo posto contro la parete, la madia svuotata va lavata e lasciata fuori ad asciugare, le tavole del pane passano dalla rastrelliera a muro alla bocca del forno per infornare e sfornare poggiando a ponte tra il piano esterno del forno e una sedia o il tavolino dall’altro estremo.

Il resto che serve viene portato da casa, ceste, panare, limmi, vasche, quartare, tovaglie, coltelli, olive, zucche, sale, olio, ecc.. di volta in volta nei tanti tragitti tra casa e forno secondo  la giornata. Esaurita la funzione al forno l’oggetto viene riportato a casa alla prima occasione liberando lo spazio e rendendo più agevole il trasloco finale.

Il primo arrivo è quello del fasciame per il riscaldamento del forno, che si può fare anche abbastanza anticipato in quanto il piazzale è già stato liberato dai riscaldamenti del turno prima. Poi le farine in sacchi piuttosto pesanti. A questi pensavano i traini o i carretti, tutto il resto andava nelle panare a spalla di gente che spaccava il paese annunciando così al mondo la festa della propria panificazione. Ai ragazzi era dato spesso il compito di portare l’acqua dalle fontanine e si industriavano con carretti coi cuscinetti a sfera.

A un certo punto del pomeriggio ogni cosa, anche apparentemente insignificante, doveva essere sul posto e in perfetta efficienza. Come detto prima la dotazione del forno tradizionale è essenziale ma non nel senso che è scarna ma che deve essere, nel senso proprio, essenziale. Un solo elemento assente o guasto avrebbe bloccato la panificazione nei tempi stabiliti. A questa sorveglianza preliminare badava il fornaio di turno.

La camera di cottura

La camera di cottura costituisce il cuore del sistema forno e ne prende il nome in toto. Nel tempo le dimensioni del forno comunitario si sono stabilizzate come compromesso tra vari parametri fissando le misure in modo tale da garantire una panificazione con produzione di pane secco almeno bimensile. Queste dimensioni possono essere assicurate con forni delle dimensioni del diametro dai tre ai quattro metri. Un piano di 3,00 ml di diametro sviluppa una superficie di circa 7,00 mq che può contenere duecentoottanta pezzi da quindi centimetri di diametro con una percentuale di ricoprimento del 60%. Nella fase di bicottura con una percentuale di ricoprimento più alta (80%) in quando le forme non subiscono aumento di volume un forno di queste dimensioni  può contenere 350-370 friseddre aperte (spaccate) che corrispondono a 175-185 pezzi di prima cottura. Il numero massimo di pezzi per la produzione di pane secco quindi all’interno del forno nella prima cottura non può superare i 4,35 mq circa della superficie (62 % circa) per cui la residua superficie può essere occupata dalle forme del pane fresco per un quantitativo dai 30 ai 40 pani secondo la dimensione della forma. Con un consumo di cinque friseddre al giorno in una famiglia la produzione media di 360 pezzi assicurava una copertura di 72 giorni. Mentre per il pane fresco in realtà i pezzi erano limitati a una ventina di pezzi e il resto dello spazio lasciato per gli sfizi come le cucuzzate, per pirille, taralli e fave da tostare.

Fissata la dimensione del piano come capacità produttiva del forno e di conseguenza tutta la catena di attrezzi necessari, le regole imponevano la geometria del forno, vale a dire una bocca di dimensioni laterali, tenuto conto degli ingombri degli stipiti, tali da poter osservare a vista ogni zona del pavimento e un’altezza che consentisse l’infilaggio comodo di fascine ma soprattutto realizzasse due buoni varchi sovrapposti tra i flussi di aria di combustione in basso e quello in alto dei fumi combusti. Una apertura più ampia avrebbe compromesso la uniformità di cottura in prossimità della bocca riducendo la capienza efficace del forno mentre un’apertura più stretta avrebbe impedito la combustione nel forno. Fissato l’intradosso della bocca la regola imponeva un’altezza prossima al doppio per l’intradosso della cupola della camera. Un forno da 3,00 ml di diametro avrebbe una bocca di 60-70 cm di larghezza pressoché uguale in altezza e con una camera al colmo di 120 cm. L’altezza della calotta, oltreché per ragioni di combustione, doveva essere ben bilanciata in rapporto alla capacità di cuocere la forma nello stesso tempo dal fondo e dal cielo. Una volta troppo alta non avrebbe irradiato un calore bilanciato rispetto al fondo col rischio di ottenere fondi già cotti con mollica ancora cruda. O viceversa con calotte troppo basse il rischio opposto.

Per questo ogni forno aveva il suo fornaio, che conosceva pregi e difetti del proprio forno infornando secondo opportune logiche le forme più grosse nei punti più caldi, oppure quelle più acquose o in ultimo le forme infilate per ultime verso il fuochino di ripresa interno, e i pezzi più piccoli in prossimità della bocca, anche secondo una previsione di successione di sfornatura.

Del pane infornato diremo poco se non per gli aspetti che hanno a che fare con la tecnica costruttiva della camera di cottura. Circa la percentuale di ricoprimento delle forme disposte sul piano si è già calcolata una percentuale non superiore al 60% dello spazio prevedendo l’aumento di volume della forma quasi doppia dovuta, non alla lievitazione che con l’infornatura l’attività dei lieviti cessa all’istante, quanto alla espansione dei gas (anidride carbonica come sottoprodotto della lievitazione ) intrappolati nei numerosi alveoli della maglia glutinica. Una farina che nell’impasto con l’acqua produce molto glutine (farine forti) avrà pani con una percentuale di alveoli più alta. Le farine salentine prodotte nei secoli sono sempre state farine mediamente forti, dai grani arcaici, fino alla famosa varietà Cappelli, le Rossarde, le Capinere, Semeto, ecc.. fino alle recenti cultivar. La panificazione salentina si caratterizza da farine molto simili a quelle dell’areale pugliese con l’utilizzo di lieviti di birra utilizzati anche appunto per la fermentazione della birra e altri amidi o zuccheri vegetali. Nell’areale altamurano si utilizza lievito composto da batteri lattici (lievito madre) che assicura una più lunga conservazione della sofficità del pane.

Per chi vuole approfondire i meccanismi chimico-fisici che si evolvono dal semplice contatto della farina con l’acqua, poi l’interazione coi lieviti e le trasformazioni strutturale indotte dalla manipolazione dell’impasto lo avvisiamo che non è cosa facile da capire. Esistono su Youtube delle buone guide anche dimostrative nella pratica caricate da bravi appassionati ma anche vere e proprie idiozie. Tra queste segnalo le proprietà di digeribilità della panificazione col lievito madre (che comunque contiene sempre un percentuale di lievito di birra al suo interno) o la maggiore conservazione del prodotto lievitato con lievito madre per le pizze (per l’ovvia ragione che vanno mangiate subito) mentre questa peculiarità diventa essenziale nelle pizze fredde come le famose focacce baresi.

Dotato il Salento meridionale di una buona calcarenite come la pietra leccese, sconosciuti i mattoni e limitato l’uso dell’argilla fresca impastata sul posto i forni tradizionali sono in genere in pietra leccese.

Una rapida scorsa ai parametri termotecnici delle varie pietre ci dice che non esistono grandi differenze tra cemento, argilla cotta e pietre naturali in genere. Per cui l’aspetto da considerare per primo è la pulizia e la tenuta nel tempo dell’investimento.

Mentre per i piccoli fornetti da tre-quattro pizze si può procedere anche all’acquisto diretto del forno realizzato in pezzi interi in particolari cementi refrattari di cui ogni azienda si è riservato il relativo brevetto, per i forni fino al diametro di 1,80 ml si può procedere con l’esecuzione di argilla cruda in panetti. Sono dimensioni del volume interno che non consentono di operare dall’interno e l’assemblaggio della creta procede sempre dall’esterno con la posa e la battuta di panetti ancora freschi di argilla. Un bravo operatore può chiudere una camera di cottura di questi tipo anche senza guide o forme di vario genere.

L’umidità dei pani e la sua residua plasticità consentono un incollaggio intimo dei pezzi sia tra quelli dello stesso filare che tra i filari sovrapposti che vanno chiudendosi a cupola verso l’alto. L’argilla ancora cruda ma non plasticizzata contiene una minore quantità d’acqua e questo per favorire una successiva cottura a terracotta dell’argilla cruda con ridotti fenomeni di fessurazioni. Anche per questa ragione nell’impasto crudo è dispersa paglia, un artificio noto anche hai produttori di mattoni per limitare i danni da ritiro.

Al crescere delle dimensioni della camera, del relativo peso e della necessità di avere un volume di accumulo del calore per poter cucinare una maggiore quantità di prodotto lo spessore della prima parete deve opportunamente crescere ed essere in grado di far fluire il calore al suo interno nella fase di riscaldamento e rilasciarlo verso la camera nella fase di cottura. In termini energetici il calore necessario alla cottura di una certa quantità di farina (che comprende l’evaporazione dell’acqua di impasto, l’innalzamento dell’impasto alla temperatura di cottura e la permanenza di una opportuna temperatura per tutto il tempo di cottura) può essere fornito solo dal fondo e dalla calotta della camera che al netto delle dispersioni verso l’esterno ne deve acquisire una quantità corrispondente se non superiore.

I parametri nella camera di cottura dal punto di vista termico sono molteplici, oltre al bilanciamento tra fondo e volta della calotta c’è da realizzare una temperatura interna prossima ai 300 gradi subito dopo la pulizia del forno e infine la disponibilità di calore all’interno dello spessore murario tale da garantire la permanenza di una certa temperatura.

Per accumulare all’interno della sola calotta di pietra leccese dello spessore di 25 cm (in un forno del diametro di 2,50 ml) e valutata in circa 2,00 mc di pietra con un calore specifico di 0,8 kJ/kg°K e un peso specifico di 1800 chili al metro cubo con un innalzamento della temperatura da 20 a 300 °C si dovrebbero fornire circa 400 mila KJ di energia pari a quasi 100 mila kcal. In termini di legna il valore corrisponde a circa 40 chilogrammi di legna o ramaglie secche che raddoppia in peso per via delle dispersioni e dell’aria di combustione che ventila raffreddando la camera.    

La temperatura dell’aria nella calotta supera i 900 °C durante lo sviluppo della fiamma per assestarsi a una temperatura prossima ai 300 gradi poco prima dell’infornatura. In questa condizione di equilibrio termico dovremmo pensare che l’aria interna assuma la temperatura delle pareti e del fondo. Sono temperature che dopo la pulitura del forno vanno calando ma comunque prossime alla temperatura di autocombustione del legno che fissiamo mediamente intorno ai 250 °C.

Il controllo di questa temperatura è svolta con sistemi diversi. Durante la spazzatura del fondo si osserva se il pulviscolo legnoso ancora incombusto si incendia scintillando, oppure inserendo all’interno cartone e verificando se carbonizza senza bruciare. Oggi è possibile misurare la temperatura con specifici termometri da forno e con comodi misuratori digitali a infrarosso misurando direttamente ogni punto del fondo o delle pareti.

Il rischio resta sempre quello di non riuscire a cucinare il pane piuttosto che bruciarlo. Durante la carica del forno è tale la quantità di prodotto freddo e umido inserito che ne deriva un calo istantaneo della temperatura, come pure i tempi non brevi di infornata che lasciano l’apertura della bocca aperta al ricambio d’aria interna contribuiscono a questo calo.

Finita la necessità di ventilare la camera per alimentare fiamme interne, la bocca era chiusa con una pesante lamiera in ferro (pacenzia) che a temperature elevate produce un certo isolamento alle correnti d’aria ma soprattutto un irraggiamento di rimbalzo dall’interno all’interno aumentando la temperatura in prossimità della bocca in genere poco calda per via del flusso freddo radente dell’aria di combustione in fase di riscaldamento.

D’altro canto le ricette del pane fatto in casa nei piccoli forni domestici con le temperature perfettamente controllate ci dicono che una temperatura di partenza di 250 °C a calare verso i 200°C dopo una mezz’ora producono una ottima cottura della forma.

Oggi sarebbe anacronistico costruire un forno a legna senza dotarlo di una integrazione a gas supplementare per la regolazione ottimale della temperatura interna che eviti errori anche a utenti inesperti.

Questo preambolo serve a spiegare e giustificare le maestranze che costruivano forni tradizionali ricorrendo alla perseveranza di materiali e geometrie di forni già collaudati, dai quali ripetevano le dimensioni delle bocche dei camini di evacuazione e le curvature della calotta.

Di un forno in funzione che aveva dato buoni risultati se ne clonavano le caratteristiche ripetendo esattamente le dimensioni ottimizzando al massimo la cura della posa della pietra secondo la propria maestranza o correggendo piccoli errori venuti fuori con la pratica del forno originale.

L’uso della pietra leccese richiede per i forni una certa maestria nel taglio accurato della pietra. L’accostamento delle facce tra i filari e i corsi deve avvenire se possibile senza uso di malta in quanto il giunto sarà il primo deteriorarsi alle alte temperature delle fiamme.

I conci anche di profondità prossima ai 25 cm vanno tagliati a cuneo secondo uno sviluppo ad estrudere a partire dalla forma di rivoluzione adottata dalla camera. Camere molto ampie richiedono un maggiore abbassamento della volta al centro con l’adozione di una superficie di rivoluzione ottenuta da un ellisse o da un arco policentrico.

In genere le forme generatrici sono di rivoluzione su archi a sesto ribassato o policentrici o ellissi (la cui costruzione non è molto nota nelle maestranze), difficilmente la base ha uno sviluppo rettangolare con angoli interni difficili da spazzare. Sempre per facilitare la pulizia il primo corso di partenza ha uno sviluppo perfettamente verticale per facilitare l’avvicinamento della paletta verticale al bordo delle pareti.

L’inserimento della bocca nella geometria della calotta non era di facile esecuzione. A tale scopo era necessario ricorrere a dei pezzi monolitici di pietra leccese per realizzare sia il prospetto esterno della bocca  in particolare gli stipiti e la volta della bocca.

Se si è osservata mai la bocca di un forno tradizionale ci si sarà accorti che le spalle della bocca hanno spessore variabile dalla base fino all’innesto della pezzo di volta. Questo perché alla base è richiesta la minima profondità possibile per consentire le vedute e le operazioni laterali coi forconi. Una bocca con un canale di innesto molto profondo impedirebbe la gestione delle porzioni anteriori e laterali del forno.

Con l’arretramento della calotta al salire dei conci rispetto all’imboccatura era opportuno che i filari in corrispondenza sviluppassero un effetto arco tra di loro in quanto costituivano la prosecuzione della galleria di imbocco. Questa era la procedura più complessa in quanto si arrivava ad avere una uniformità e uno sviluppo armonioso anche dal punto di vista estetico all’interno della camera con la conformazione a mannaia e a mano libera di conci di pietra leccese di notevoli dimensioni.

La gestione delle spinte orizzontali generate dalla calotta non era tenuta in conto in quanto ampiamente contrastata dai muri perimetrali che confinavano la calotta in pietra leccese e i rinfianchi di pietrame interposti.  

Di non minore importanza è il fondo che costituisce il piano di cottura. Posto ad un’altezza di circa un metro era costituito da uno strato di chianche di pietra leccese tagliate a spessore di circa 12 o 17 cm installate subito dopo la posa della calotta o almeno del primo corso di spiccato. Poggiavano su sabbia di allettamento e la restante quota tra la sabbia e la fondazione del terreno era murata in vari modi per evitare cedimenti. Anche per questi elementi si evitava il giunto largo in quanto avrebbe lasciato col tempo il segno sul fondo delle forme di pane e impedito una buona spazzatura.

Il piano del forno proseguiva verso l’esterno formando il piano di appoggio esterno sempre in pietra leccese al di sotto della proiezione del camino verticale. Era formato da un massiccio elemento in pietra incastrato al di sopra dei muri della fossa delle ceneri.

Sfruttando le proprietà igroscopiche del sale si mischiava nella sabbia una discreta quantità di sale marino o altri preferivano la fine sabbia di mare. Lo scopo di questo inserimento è nell’utilizzare le proprietà di assorbimento dell’umidità del sale per il fondo del forno che nei periodi di inutilizzo avrebbero trattenuto l’umidità destinata o incamerata dalla chianca e che si sarebbe rigenerato nel successivo riscaldamento del forno. L’effettiva efficacia del metodo del sale resta da verificare. Un possibile beneficio ad avere una chianca asciutta all’accensione del fuoco è quella di evitarne la fessurazione in quanto è noto che il vapore trattenuto in una pietra portato ad alte temperature genera pressioni che possono essere anche esplosive.

La durata di un forno per un uso comunitario quotidiano non superara i dieci anni. Con più frequenza era opportuno rifare il letto delle chianche operando dall’interno e quando lo scollamento di pezzi di pietra leccese dalla volta era troppo ricorrente si provvedeva a rifare l’intera volta bocca compresa. Per questo la camera di cottura era indipendente dalle murature di fondazione e di quelle laterali di confinamento e realizzata per ultima. Rotto il pavimento del fornello superiore e tolto il rinfianco sopra la calotta si demolivano i vecchi conci in pietra, spesso ormai fratturati in diverse direzioni e bloccati sul posto solo dal contrasto naturale dell’effetto volta.

Segnate le misure dei pezzi d’arte, la forma della volta e corretti piccoli difetti dell’uso precedente il forno era pronto a nuova vita.




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