25 anni dopo
Il 16 giugno del 1985 io studiavo ingegneria a Torino. Avevo già visto qualche partita nel vecchio Comunale, in particolare i derby cittadini e poi alcune notturne di Coppa della Juve. Anche una Italia-Inghilterra con gol di Tardelli. Da curioso avevo spiato da fuori il vecchissimo Filadelfia, invaso dalle erbacce, e fatto un salto a Superga a vedere il punto zero del Grande Torino. Il Comunale era ancora lo stadio cittadino.
Non sempre si poteva andare allo stadio. Molti ragazzi del Politecnico però davano la disponibilità per stendere, anche di notte, i teli sul parto per la nevicate e a toglierli qualche ora prima della partita. Qualche biglietto tra noi girava.
Che nel glorioso Comunale ci potesse giocare il Lecce non era ancora nell’elenco delle mie fantasie. La stagione ’83-84 era andata male. La squadra nata con ambizioni di promozione in Serie A non ce l’aveva fatta. Si ricominciò nell’84, con una rosa di esordienti e a poche partite dalla fine del campionato, il Lecce si trovò nelle parti alte a lottare con un gruppo di avversarie per un’occasione di promozione quasi insperata. Il mio compagno di casa era un tarantino di Manduria che aveva l’abitudine di giocare la schedina e seguiva il calcio in modo più attento di me. Erano tempi che la schedina, prima di giocarla, si studiava. Mi stupiva la sua passione per la squadra leccese da parte sua anche se era nato fuori dalla provincia di Lecce. Anche loro, come noi leccesi, speravano di vedere un giorno il calcio di serie A con le grandi squadre del nord venire a giocare nel Salento e loro, manduriani, erchiesi, francavillani, avevano puntato tutto il loro tifo sulla squadra leccese, la sola che in quegli anni poteva ambire a tanto.
Tanto girò che quell’anno all’ultima di campionato, nella partita fuori casa col Monza, al Lecce sarebbe bastato un solo punto per la promozione. Dal 1908, anno di fondazione, a quel 16 giugno 1985 mai si era arrivati tanto vicini alla serie A. Non c’era internet, youtube, facebook, nemmeno una tv locale a dare notizie o caricare l’entusiasmo, ricordo di aver letto un solo trafiletto su TuttoSport il sabato della vigilia. Un po di visibilità, in quel mondo tutto dedicato alla serie A, anzi alle sole squadre del nord, il presidente Jurlano era riuscito ad ottenerla solo grazie ad alcune nomine in Lega.
Non so il clima della città leccese in quei giorni, quanto entusiamo ci fosse in provincia, come si mosse il tifo organizzato. Ma quella domenica a Monza, da Lecce erano venuti i Ragazzi della Nord e qualche gruppo di pazzi. Il resto erano facce di giovani studenti venuti da tutte le università del nord e, molte di più, quelle inconfondibili di emigranti e lavoratori venuti da ogni dove, compresa la Svizzera e la Germania. Le targhe delle auto nel piccolo piazzale erano la geografia dell’emigrazione leccese. Gente magari alla prima partita della loro vita, venuti solo per orgoglio, per riscattare una vita fino ad allora di sola di serie B.
Tutto fu abbastanza impreparato e pure nello stadio sbagliato. Un solo striscione decente dei Ragazzi della Nord buttato per terra sui cartelloni perchè lo stadio di Monza era quello che era. Nessuna bandiera in vendita fuori dallo stadio, solo sul finale uscì fuori un grosso bandierone fatto sfilare durante l’invasione di campo. Piccoli striscioni con le lettere cucite con l’ago dalla moglie o dalla fidanzata. Ricordo attaccate alla rete del campo tante facce indurite, con baffi e capelli neri. Solo maschi, di cori nemmeno a parlarne. Seguimmo la partita dalla curva ospiti, proprio dietro la porta. Il campo del Monza mi sembrò, e lo era, più piccolo di quello del nostro Maglie. Non c’erano più posti liberi, nemmeno in piedi. Quelli un po più sotto, senza visibilità, si facevano raccontare le azioni. I giornali dicono che c’erano anche dei tifosi del Monza, ma io non ricordo di averne visti. Forse erano quei quattro spettatori che non invasero il campo nel finale e rimasero a guardarci seduti sugli spalti. Anche al Monza serviva un solo punto per non avere sorprese in zona retrocessione.
A noi spettatori dal campo quella sembrò una partita vera, ora a guardarla nel video che ho scovato da poco su Youtube, invece pare una presa in giro. Tutti zitti, concentrati e preoccupati fino al gol di Di Chiara, poi l’istanatneo pareggio e di nuovo tutti zitti. I risultati delle altre squadre dalle radioline. Solo nell’ultimo quarto d’ora partì una strana euforia che contaggiò anche i giocatori in campo. Cori poveri, da gente semplice piombata quasi per caso in un’occasione irripetibile di riscatto prima di tutto personale e sociale. Serie A, Serie A, Lecce, Lecce. Il Bari merda ancora non si usava, anzi i tifosi leccesi al passaggio di ritorno nella stazione di Bari furono salutati dallo stesso grido Serie A perchè anche il Bari in quell’anno salì nella massima serie.
Negli ultimi dieci minuti, nessuno vuole più rischiare e il Monza lasciò letteralmente la palla al Lecce. I tifosi contano ad alta voce i passaggi, a decine per decine di volte, melina di attesa, tutto quello che serve solo chiudere in tempo regolamentare e omologare la partita. I cori poi aumentano, e non erano i cori rituali e stantii del tifo organizzato di oggi, ma quasi rabbiosi e in campo cominciano a preoccuparsi. Dal primo minuto la gente è attaccata alla recinzione, anzi c’è un solo anello di facce che parte dalla rete a filo del campo di gioco e arriva fino alla gradinata più alta. La recinzione è una vecchia rete di filo di ferro arrugginita a maglie romboidali, sta lì proforma, a due metri di altezza non ci arriva. Tanto è fragile che sopra non rischiano di appollairsi nemmeno i più arditi, si scavalcherà all’occasione nel finale di colpo e basta. Lo stadio non ha sottopassaggi, si esce dal campo di gioco da un angolo dietro la bandierina del calcio d’angolo, non ci sono forze dell’ordine in nessun settore. In campo, forse, si mettono d’accordo: appena il pallone è a due passi dall’uscita, l’arbitro fischierà la fine e tutti scapperanno. Nessuno ha voglia di testare l’amore dei tifosi. Ma la porta di uscita è dietro la difesa del Lecce e lì la palla non ci può arrivare neanche per scherzo. Attesa. Forse qualcuno dei responsabili dello stadio comincia ad aprire per tempo il varco e i giocatori invece si vanno fiondando dentro all’istante. Finisce che l’arbitro fischia la fine quando ormai tutti i giocatori stanno scappando coi primi invasori già addosso. Pure quelli del Monza scappano. Quelli più attardati si salvano buttando per terra la maglia di gioco come esca per i tifosi troppo a ridosso. Tutti vogliamo entrare in campo. Io ricordo di essere entrato da una porta ormai aperta ormai di proposito. Chi grida, chi corre, sfoghiamo la gioia quasi subito. Noi in campo e gli spalti vuoti. Ci stendiamo sul prato. Io raccolgo un trifoglio che ancora conservo in un’agendina. Gira voce che il Lecce sarà ospite negli studi della Rai di Milano alla Domenica Sportiva. Si ricaricano le batterie del tifo, si chiede l’indirizzo e la strada degli studi televisivi, ma poi non fu facile inseguire la squadra con un pulmann di linea e tornammo a Torino.
La festa e la gioia vera, i tifosi del Lecce la vissero poi veramente solo durante il ritorno, nella stazione di Milano, nei tanti caselli autostradali e nei posti di frontiera attraversati. Solo chi ci è passato dalla stazione di Milano per le dure necessità della vita può capire quante soddisfazioni valesse in quel giorno gridarci dentro quella emancipazione sportiva. Non ci fu treno, quella sera, diretto per ogni direzione e distanza che non imbarcò leccesi felici di serie A. Furono molti i milanesi di origine salentina sui binari a salutare, e il Milano-Lecce di quella sera, almeno fino a Bologna, fu salutato da bandiere in ogni stazione.
Noi, piccolo plotoncino torinese, ritornanno a Porta Susa da eroi, la Juve degli scudetti a mitraglia degli anni ’80 era comunque avvisata.
Passata l’estate, la società comprò due stranieri argentini. Uno dei due, Juan Alberto Barbas (che i romanisti non dimenticheranno mai) detto Beto, destinato alla regia del gioco, dopo la firma del contratto e prima di arrivare in Italia mandò tramite un giornale sportivo un saluto autografo ai tifosi del Lecce: “Un saludo a todos los aficionados”. Per la prima partita in casa col Torino, anche noi ppoppitielli ci attrezzammo e demmo mani alla costruzione di uno striscione, anzi due, perchè intero pesava troppo. Su uno ci scrivemmo “ORTELLE” e credo sia durato almeno quindici anni e forse è ancora integro da qualche parte, sull’altro ci scrivemmo “LOS AFICIONADOS” che su qualche foto storica in giro ancora si vede. Avevamo già pareggiato in casa del Verona, campione d’Italia ’85, ci toccava il Torino, avevamo uno striscione che per anni è stato protagonista solo soletto nella curva Sud, l’entusiamo era a mille.
Venticinque anni dopo, domenica scorsa, sono ritornato allo stadio per un’altra promozione del Lecce, l’ottava. Con moglie e due figli. Ultima partita del campionato 2009-2010 di serie B, ma stavolta in casa. Serve ancora una volta un punto per chiudere i conti. Sono preoccupato, ma solo che il più piccolo dei miei bambini, leccese da sempre, ci resti male in caso di sconfitta.
Ma tutto è andato bene, forse troppo stupiti e curiosi da potersi divertire, dopo un’infanzia passata davanti alle partite in tv, hanno finalmente visto uno stadio vero.
Quello realizzato in fretta e furia tornando da Monza quell’estate dell’85.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.