Settari e carbonari nel Comune di Ortelle
Passato lo sconvolgimento rivoluzionario napoleonico e avviata la Restaurazione (1815) si preparano i 45 anni che avviano le condizioni per l’Unità d’Italia. Il Salento non è escluso dalle tensioni e dalle aspirazioni liberali. Ogni piccolo paese deve sopportare la pressione e il controllo esercitato dai Borboni sui ceti più influenzati dalle idee costituzionali o democratiche. La corona borbonica, in perenne crisi, deve guardarsi sia dai veri e propri democratici che dai monarchici che ormai dichiarano le proprie simpatie per un cambio in favore di Vittorio Emanuele.
In questa prima parte del saggio di Salvatore Coppola la storia dei processi ai Carbonari di Diso, Ortelle, Andrano, Castiglione e altri Comuni del Salento meridionale appena dopo la restaurazione.
DAL NONIMESTRE RIVOLUZIONARIO (1820-21)
ALLA CRISI DELLA CARBONERIA:
SETTARI E CARBONARI NEL COMUNE DI ORTELLE
da Il Filo della Memoria – Salvatore Coppola pagg. 283-301
Il re Ferdinando IV, restaurato sul trono di Napoli dopo il Congresso di Vienna (assunse il titolo di Ferdinando I re delle Due Sicilie), non concesse la Costituzione che aveva promesso e questo fu uno dei motivi per cui si registrarono diversi episodi di rivolta in molte province del regno, dove la lotta per la concessione della Costituzione divenne uno degli obiettivi principali delle organizzazioni settarie, tra le quali la più importante era la Carboneria, che fece proseliti soprattutto tra gli esponenti di quella classe borghese che, nel periodo in cui aveva regnato Gioacchino Murat, si era affermata come classe dirigente contro la vecchia aristocrazia feudale.
Oltre alla Carboneria, era diffusa anche la società segreta dei Filadelfi (capeggiata dal pisano Filippo Buonarroti) che si batteva, oltre che per la Costituzione, anche per l’instaurazione della Repubblica e rivendicava, in ambito socioeconomico, la riforma agraria con l’abolizione della proprietà privata delle terre e la loro distribuzione ai contadini. Molti professionisti, artigiani, commercianti, ufficiali dell’esercito, rappresentanti del basso clero, e anche piccoli proprietari terrieri, scontenti della politica fiscale adottata dal primo ministro Luigi Dei Medici, si organizzarono all’interno delle società segrete per costringere il sovrano a garantire maggiori spazi di libertà e di autonomia amministrativa attraverso la concessione della Costituzione.
Dopo il fallimento di alcuni tentativi insurrezionali nel 1817-1818, la Carboneria riprese l’iniziativa a seguito dello scoppio della rivoluzione spagnola del 1820; un gruppo di ufficiali, sottufficiali e soldati semplici di stanza a Nola, capeggiati dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, ai quali si affiancarono il sacerdote don Luigi Menichini e altri ufficiali di Napoli, tra i quali la figura più rappresentativa era quella del generale Guglielmo Pepe, costrinsero il re Ferdinando I a concedere la Costituzione (luglio 1820), a nominare un nuovo governo e a fissare la data per l’elezione dei deputati al Parlamento. Le speranze suscitate da tali avvenimenti favorirono in molte province l’adesione al progetto carbonaro anche delle masse contadine, che si attendevano che il nuovo governo attuasse radicali riforme come la distribuzione delle terre e la riduzione delle tasse (soprattutto quella sul sale).
La Carboneria, presente in Terra d’Otranto con alcune sezioni (vendite) fin dal periodo murattiano, nel 1820 era presente in molti centri anche piccoli del basso Salento; nel distretto di Gallipoli erano attive le vendite di Corigliano (dove il rappresentante di maggiore prestigio era il sacerdote don Gaspare Vergine), di Galatina, Otranto, Nardò, Calimera, Torrepaduli, Ruffano, Supersano, Specchia, Taurisano, Nociglia, Scorrano, Presicce, Patù; le vendite o sezioni locali erano guidate da un numero ristretto di capi tra i quali figuravano il presidente e il segretario, il primo e secondo sorvegliante, il cassiere e l’esperto[1].
Dopo la concessione della Costituzione, alcuni patrioti salentini presero l’iniziativa di costituire a Lecce un comitato provinciale per l’organizzazione delle elezioni presieduto da Vincenzo Balsamo e del quale facevano parte Benedetto Mancarella, il vescovo di Lecce don Nicola Caputo e il sacerdote don Oronzo Guarini; Balsamo lanciò un appello agli intellettuali affinchè propagassero le idee di libertà tra le popolazioni dei comuni della provincia. A partire dal 1° agosto 1820 i sindaci predisposero le liste dei cittadini maggiorenni (“idonei”) i quali avrebbero eletto i deputati al Parlamento e la nuova deputazione provinciale; per i distretti di Lecce e di Gallipoli furono eletti Michele Tafuri di Nardò e Ippazio Carlino di Lecce, i quali parteciparono a Napoli alla riunione solenne del 1° ottobre 1820 nel corso della quale il re Ferdinando giurò fedeltà alla Costituzione. L’attività del Parlamento fu paralizzata dai contrasti tra il gruppo dei democratici carbonari e quello dei moderati murattiani; di lì a poco, inoltre, il re Ferdinando, venendo meno al giuramento di fedeltà alla Costituzione da lui stesso concessa, chiese e ottenne l’intervento dell’esercito austriaco affinchè ripristinasse l’ordine e ponesse fine all’esperienza costituzionale; il governo carbonaro affidò al generale Guglielmo Pepe l’incarico di affrontare le truppe che marciavano su Napoli. In molte province si organizzarono, per iniziativa dei commissari inviati dal governo centrale, gruppi di volontari che avrebbero dovuto unirsi all’esercito di Guglielmo Pepe; per la provincia di Terra d’Otranto l’incarico fu affidato a Liborio Romano di Patù (professore di diritto commerciale presso l’Università di Napoli), il quale, in collaborazione con i leccesi Nicola Paladini, Giuseppe Parisi e Guglielmo Paladini, riuscì ad organizzare una compagnia di cavalleria (gli Ussari salentini) che mosse alla volta di Napoli senza però riuscire a congiungersi con l’esercito di Guglielmo Pepe che, nel marzo del 1821, fu sconfitto a Rieti dagli Austriaci; poco dopo, il sovrano pose fine all’esperienza costituzionale [2].
Iniziò, dopo la conclusione dell’esperienza liberale, un periodo di persecuzioni nei confronti di quanti avevano partecipato al “nonimestre rivoluzionario“; gran maestri, dirigenti e semplici affiliati (o solo sospettati di avere fatto parte delle società segrete) furono condannati a morte, al carcere duro o costretti ad andare in esilio; in ogni provincia le corti marziali indissero pesanti condanne anche a persone che non avevano avuto alcuna responsabilità nelle vicende rivoluzionarie e arrestate sulla base di compiacenti e interessate delazioni; nei circondari di Maglie e di Poggiardo si distinsero per il loro feroce zelo antiliberale Giacinto Toma, regio giudice a Maglie, e Nicola Retino, regio giudice a Poggiardo, i quali, utilizzando spesso denunce anonime, riempirono le prigioni di presunti colpevoli, assecondando così lo spirito vendicativo dell’Intendente provinciale duca Guarini che aveva disseminato la provincia di spie e intriganti delatori e chiesto a tutti i sindaci di riferire su quanto era accaduto nei rispettivi comuni nel periodo costituzionale, obbligandoli a denunciare coloro che avevano aderito alle società segrete o avevano manifestato una qualche forma di adesione alla causa liberale. L’azione repressiva del governo si accentuò quando, nel 1823, venne nominato Intendente di Terra d’Otranto Ferdinando Cito (“…vendette private, interessi personali, il desiderio di occupare le cariche delle loro vittime, l’abitudine all’intrigo e la premura di trar vantaggi dai disordini, erano i sentimenti che animavano molti intriganti e delatori”, così viene descritto il clima di quegli anni)[3] .
Dopo la morte di Ferdinando I (gennaio 1825), i liberali si attendevano che il nuovo sovrano Francesco I (il quale, avendo concesso un’amnistia estesa anche ai reati politici meno gravi, aveva suscitato molte speranze), attuasse una politica più liberale o meno repressiva; così non fu, in tutte le province del regno, infatti, i liberali continuarono ad essere perseguitati ed anche in provincia di Terra d’Otranto Ferdinando Cito perseverò nella sua feroce azione repressiva. Venne data la caccia a tutti coloro che si sospettava fossero membri della società segreta degli Ellenisti (o Edennisti), una setta che, come si dimostrò successivamente in sede processuale, non esisteva affatto; si trattava di un’invenzione di Cito e dei suoi più stretti collaboratori che potevano, in tal modo, perseguitare tutti i liberali inseriti nelle liste degli “attendibili” (coloro cioè che erano sospettati di essere liberali) sulla base di velenose e calunniose segnalazioni il più delle volte anonime.
Molti di loro furono tratti in arresto e rinchiusi nel famigerato carcere politico di Santa Maria Apparente a Napoli: tra gli arrestati più noti ricordiamo Vito Domenico Fazzi, Salvatore Patitari, Paolino Quintana, Agostino e Domenico Pirtoli, Gaetano Giannetta, Cirino Ciullo, Gaspare Vergine, Vincenzo Balsamo, Eugenio Romano, Ercole Stasi e i fratelli Gaetano, Giuseppe e Liborio Romano. Il processo al quale furono sottoposti si concluse con alcune condanne sostanzialmente lievi perché gli stessi inquirenti di Napoli, ai quali era stata affidata la gestione del processo, non trovarono elementi sufficienti per dimostrare l’esistenza della setta degli Ellenisti; si trattò, più che altro, di misure simboliche che dovevano in qualche modo non sconfessare l’operato di Cito; e cosi, solo per citare i nomi di alcuni noti liberali del basso Salento, ricorderemo che Liborio Romano di Patù fu sottoposto a regime di stretta sorveglianza, il notaio Gaetano Giannetta di Specchia Gallone fu allontanato dal suo paese, Paolino Quintana di Cocumola fu affidato alle autorità di polizia perché fosse tenuto sotto “severa sorveglianza”, don Gaspare Vergine, sacerdote di Corigliano (“uomo scellerato, irreligioso, irreconciliabile”, secondo l’accusa) fu condannato al confino “in una provincia la più lontana da Terra d’Otranto”; la stessa condanna fu chiesta per il parroco di Vitigliano don Cirino Ciullo; Vito Fazzi (originario di Calimera ma residente a Lecce), fu tenuto in regime di “severa sorveglianza”; Ercole Stasi di Presicce e Gaetano Romano di Patù furono obbligati “a non allontanarsi da Lecce, senza il permesso dell’Intendente”; per Narciso Trunco, ricevitore del registro e bollo in Tricase, fu proposto l’allontanamento dalla provincia e così per Francesco Campi di Sanarica, mentre per i suoi concittadini arcidiacono Giuseppe Pasquale Pascarito, Pantaleo Pascarito e Antonio Pasca, per Agostino Pirtoli e don Domenico Pirtoli di Giuggianello, per Giovanni ed Angelo Romano di Patù, per Eugenio Romano di Salve, per Pasquale Sauli di Tiggiano, domiciliato a Tricase, fu proposto il regime di “sorveglianza”; Giuseppe Nigro, decurione e cancelliere di Giuggianello, fu costretto a lasciare entrambe le cariche [4]
L’azione repressiva di Cito continuò anche dopo la conclusione del processo; la partenza dal regno di Napoli del contingente militare austriaco (luglio 1827) e le notizie che giungevano dalla vicina Grecia, che in lottava per l’indipendenza dall’impero Turco, suscitarono nei liberali nuove speranze per una possibile ripresa della lotta per la Costituzione, ed è per questo che Ferdinando Cito inasprì la vigilanza e promosse una nuova ondata di arresti. In un rapporto di polizia dell’aprile 1828 sulla presunta attività settaria di Carlo Venturi di Minervino e di don Cirino Ciullo di Vitigliano (del quale si ricordava che era rientrato in patria dopo un periodo di esilio solo grazie ad un atto di clemenza reale) venivano indicati come settari non pentiti e “nemici del trono”, oltre agli stessi Venturi e Ciullo, Giuseppe Fersini di Castiglione, Andrea Tronci e Gian Pietro Pede di Ortelle, Giovanni Mauro di Vaste e Giuseppe Domenico Perchia di Poggiardo, tutti segnalati per le loro frequenti riunioni a Vitigliano presso la casa di don Cirino Ciullo; il capo della polizia chiedeva pertanto all’Intendente provinciale l’autorizzazione a sottoporre alla più rigorosa vigilanza tutti i sunnominati e soprattutto don Cirino Ciullo di Vitigliano e Giuseppe Fersini di Castiglione allo scopo di impedire che i settari “ingrandissero di giorno in giorno il loro partito”.
La Direzione di polizia del ministero dell’Interno sollecitò le Intendenze provinciali ad accentuare la vigilanza “sopra coloro che nel nonimestre si distinsero per compromessione e per effervescenza” e che avrebbero potuto riprendere la loro attività sull’onda delle notizie che giungevano dalla Grecia: la polizia avrebbe dovuto esercitare una “continua persecuzione” per impedire “comunicazioni e contatti tra i diversi assortimenti di gente facinorosa” (“non vi è pre veggenza che basti, onde seguirli d’appresso nei loro andamenti, contatti, esternazioni, e finanche nelle partite di passatempo, che possono essere sovente il pretesto di nocivi confabulamenti…”). L’ondata repressiva del 1827-1828 colpì anche alcuni cittadini dei comuni di Diso e Ortelle, sospettati di essere affiliati alla Carboneria. Tra i sorvegliati speciali c’erano Paolino Maglietta di Marittima, suo fratello Giambattista (anch’egli di Marittima ma domiciliato a Diso), i fratelli Ippazio e Salvatore Russi di Marittima, il Guardiano del convento dei Cappuccini di Diso Padre Giuseppe Lanzara, il parroco di Diso don Michele Guglielmo, un altro sacerdote di Diso, don Saverio Guglielmo, ed inoltre Raffaele Mastrangelo, Giampietro Pede, Domenico Maria Tronci e suo figlio Andrea di Ortelle. Il giudice di Poggiardo Giacinto Toma, d’accordo con l’Intendente provinciale, aveva affidato al funzionario di polizia Nicola Retinò, in quegli anni utilizzato come capo urbano a Vignacastrisi, il compito di sorvegliare le mosse dei sospetti e di inviare periodicamente delle note informative sulla loro attività; sulla base delle relazioni segrete e riservate del solerte Retinò risultava che il luogo delle riunioni dei presunti carbonari era il convento dei Cappuccini, dove confluivano i settari di Andrano e Castiglione (Evangelista Cioffi, don Gaspare Urso e Giuseppe Ferini), di Ortelle (Andrea Tronci e Raffaele Mastrangelo) e di Vignacastrisi. Il giudice circondariale Giacinto Toma, dopo ulteriori indagini, comunicò all’Intendente provinciale che Padre Giuseppe Lanzara, il presunto capo dei carbonari della zona, (“segnalato in tutti i tempi per la sua criminosa attività pessima settaria e vigorosamente sorvegliato dalle Autorità della Provincia’1) si chiudeva spesso nella sua cella “in conferenza con delle persone, non dico ambigue, ma notorie come fìglie del disordine”, con gli “effervescenti settari dei paesi limitrofi, graduati nelle rispettive vendite [5]”
Con rapporto del 10 maggio 1828, il giudice Toma informò le autorità provinciali che i settari Alessandro e Raffaele Mastrangelo, Giampietro Pede, Tritone Rizzelli Domenico Maria e Andrea Tronci, tutti di Ortelle, si riunivano, nella casa dei Tronci, insieme con i settari di Diso e Marittima Giambattista Maglietta, Ippazio e Salvatore Russi, apparentemente per “giocare a carte o a palla”, in realtà, secondo informazioni in suo possesso, per motivi politici (le riunioni erano di per sé illegali sia per il numero che per le qualità delle persone).”La qualità dei soggetti è tale”, scriveva il giudice Toma nel suo rapporto, “da indurre il più fondato sospetto contro la loro unione nel numero vietato dalle leggi in vigore, e nelle caratteristica delle persone medesime…”. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno, le case dei “noti, notissimi individui per la loro pessima condotta” vennero circondate da un ingente numero di gendarmi che procedettero all’arresto di Domenico Tronci, dei fratelli Mastrangelo, di Giambattista Maglietta e dei fratelli Russi, mentre Andrea Tronci e Giampietro Pede riuscirono a mettersi in salvo fuggendo dai rispettivi giardini retrostanti la propria abitazione, anche se poi si costituirono qualche giorno dopo; gli otto rimasero nelle carceri di Lecce per molti mesi senza che venisse loro contestato il reato per il quale si stava procedendo; non servirono a nulla suppliche e proteste di innocenza, indicazione di testimoni a discarico, richiesta di acquisizione di prove, istanze di scarcerazione presentate dall’avvocato Donato Maria Stasi di Spongano: l’arbitrio e l’illegalità regnavano sovrani nella provincia di Terra d’Otranto governata dall’Intendente Cito.
“Eccellenza”, scrivevano i due latitanti prima di costituirsi, “Andrea Tronci e Giovan Pietro Pede di Ortelle rassegnano divotamente all’Eccellenza Sua, che nella notte seguente al giorno due del corrente mese fu dato l’assalto nelle loro case dalla Gendarmeria, cercando il di loro arresto. Non saputo gli esponenti che ciò era per effetto di disposizioni emesse dalla prelodata Eccellenza Sua. l medesimi perciò conoscendosi immuni da qualunque reato ardiscono priegarla acciò si compiaccia riceverli sotto un modo di custodia, da lei meglio visto, e l’avranno come a special grazia”;
L’ordine dell’Intendente fu quello di intensificare le ricerche per il loro immediato arresto. Qualche giorno dopo, Tronci e Pede scrissero ancora una volta all’Intendente professando la loro innocenza e l’ignoranza del reato per cui venivano ricercati: “Eccellenza, Andrea Tronci e Giovan Pietro Pede di Ortelle colla divisa di delinquenti, ma con animo lo più tranquillo, ed immune di qualunque reato, ricorrono al paterno cuore dell’Eccellenza sua. Se la calunnia gli opprime, la loro coscienza li assolve, e perciò si affidano con la più grande fiducia alla di lei Giustizia, che protegge l’innocenza oppressa egualmente che punisce la reità. Non conoscono gli esponenti qual sia l’imputazione addossatagli, ma son certi che qualunque si fosse non può mai essere al certo vera. E come no se i rassegnanti esaminando con la più stretta scrupolosità le loro azioni nulla rinvengono di reprensibile? Faccia intanto la di lei Giustizia quanto crederà convenevole delle loro persone che alla medesima intieramente si rimettono; e se non compiacerà agevolarli sotto un modo di custodia gl’imponga dove debbono conferirsi e ciecamente ubbidiranno. La di lei perspicacia verifìcherà di certo la loro innocenza ed il di lei sensibilissimo cuore sentirà in allora un dispiacere del bersaglio di essi ingiustamente sofferto; del che saranno paghi abbastanza. Si compiacerà però commettere informazioni a più persone di conosciuta morale, ed attaccate al bon ordine e al Governo, e non ad una sola che potrebbe bene agire nel suo particolare interesse, il quale potrebbe anche essere la causa motrice della campeggiante calunnia. Farà bene”.
I due decisero pertanto di costituirsi e vennero anche loro tradotti nelle carceri di Lecce.
Gli otto arrestati chiedevano con le loro suppliche all’Intendente che venisse almeno reso noto il reato per il quale si procedeva nei loro confronti e di essere ascoltati allo scopo di dimostrare la propria innocenza e approntare la propria difesa;
“Eccellenza”, si legge in una supplica, “Domenico Maria Tronci ed Andrea suo figlio, Giovan Pietro Pede, ed i fratelli Raffaele ed Alessandro Mastrangelo di Ortelle, Giovan Battista Maglietta di Diso, ed i fratelli Ippazio e Salvatore Russi di Marittima, rassegnano devotamente all’Eccellenza sua che i medesimi nonostante certi di essere immuni, pure con di loro stupore e del pubblico intero si son visti tradurre in queste prigioni centrali di Lecce. Gli esponenti conoscono ampiamente l’imparzialità della giustizia di lei, ma conoscono egualmente la di loro innocenza, e da ciò sono necessitati conchiudere che la loro sciagura debba essere figlia di qualche rapporto fondato sopra false assertive dei nemici detti esponenti, non meno che dell’ordine pubblico e del Governo che tanto li calunniatori aborrisce. Conoscendo gli esponenti medesimi la loro morale e la loro condotta politica osano con franchezza assicurare che non vi possa essere persona proba la quale abbia potuto in loro svantaggio opinare e deporre… Eccellenza, ciascuno dei supplicanti si crede incapace di criminose azioni; ma non è poi falso che la maggior parte dei medesimi si radunava di tanto in tanto nella casa del Tronci, che soleva trattenersi nel gioco cosiddetto del ciuccio; mai però è intervenuto Giovanni Battista Maglietta, mai Ippazio Russi. Il primo di questi erano tre anni dacché non vi era stato in Ortelle, ed il secondo diciannove mesi. Il Maglietta però fu due volte in Ortelle poco prima del suo arresto, e per una Ippazio Russi, quello per sistemare taluni suoi interessi, stante che possiede proprietà stabili in quel territorio, questo per andare a Vaste in un podere di ciliegie unico in tutti quei contorni e insieme andava con suo fratello Salvatore genero di Domenico Tronci. Né Ippazio Russi né il Maglietta hanno formata conversazione cogli altri delli supplicanti nella casa del Tronci, né altrove. Gli altri poi solevano radunarsi di tanto in tanto, ma ciò era sempre di giorno, sempre a porte aperte, la camera di riunione era alla pubblica prospettiva di chiunque entrava ed usciva per la casa del Tronci. Nella famiglia di questi v’erano donne e ragazzi, e nella conversazione interveniva pure don Giuseppe Rizzelli, e Nicola Fede, persone di fiducia del Governo. Se l’Eccellenza sua crede pertinente all’imputazione il di sopra esposto, si compiaccia commetterne la verifica a più e diverse persone di tutta la di lei fiducia, e di conosciuta imparzialità. Così la giustizia farà applauso all’innocenza. Lo spirito calunniatore, vedendo l’inutilità dei suoi sforzi, saprà reprimersi. Intanto il paterno cuore dell’Eccellenza sua sì compiaccia sentirli, e se li rinverrà innocenti, come son certi, disponga quanto crederà convenevole alla giustizia”.
Nella stessa supplica gli otto indicavano i nomi di coloro che, per motivi di rancore o per spirito di vendetta, avevano macchinato contro di loro; indicavano, nel contempo, i nomi di altri cittadini di Ortelle, Diso e Marittima che avrebbero potuto essere sentiti come testimoni a discarico; il giudice Toma continuava a interrogare i “nemici” o presunti tali degli otto, mentre nessuno dei testi a discarico veniva invitato a deporre.
“Eccellenza”, imploravano dal carcere gli otto, “li supplicanti le rassegnano devotamente aver preinteso con sommo stupore che le persone indicate all’E. S. con altra loro supplica, siano andate più volte al Giudice di Poggiardo, da cui siano state intese come testimoni a loro carico. Eccellenza, per quanto ha in abominazione i calunniatori, ed ama li innocenti, quantunque ingiustamente oppressi, altrettanto la di lei saviezza saprà prevenire le fatali conseguenze delle calunnie e degli intrichi disponendo nell’interesse dei rassegnanti altre istruzioni, e che fossero intesi, fra gli altri ch’Ella crederà i testimoni indicatigli con l’altra supplica. Diversamente si vedrà con orrore primeggiare l’intrico, e gli esponenti necessaria vittima dei loro nemici. La fiducia che ripongono nel paterno cuore dell’E. S. gli fa tanto sperare e l’avranno come a special grazia”.
Nonostante tali richieste, il 10 luglio 1828 gli otto indirizzarono una nuova supplica: “Eccellenza, i qui annotati individui, tutti umiliati alla vostra presenza, con fervide lacrime del cuore l’espongono come da più lungo tempo infelicemente soffrono a languire detenuti ed oppressi in queste prigioni centrali di Lecce senza aver minima ombra di peccato né di delitto alcuno, ma tutto per effetto di qualche nera e falsissima calunniosa imputazione addossatagli da persone loro nemiche i quali per vendicarsi an cercato il mezzo onde ordire simile trama per così avere la soddisfazione di farli perire dentro una carcere come l’anno ottenuta tale loro desiderata brama. Eccellenza i sventurati non cesseranno giammai di reclamare al magno, generoso e sensibile cuore del giusto e clemente Intendente Cito, che tutto agisce e governa, ed amministra ad imitazione delle sovrane Idee, tanto giuste e religiose, che Dio volle con particolarità dotarlo con quella virtù della prudenza, e del consiglio, che forma il merito del suo spirito, non che gli diede quel fondo di pietà e di umanità che è il merito del cuore. E l’istessa sorte gode la Provincia di Lecce di aver acquistato un Intendente dotato di quei medesimi doni che Dio volle fondare nel cuore e nell’animo del nostro Augusto Sovrano. Perciò i sventurati supplicanti che falsamente imputati di delitti che neppur per idea sei sognano, ora vedonsi giacere nell’oppressione di una carcere innocentemente. E se essi soffrono l’attuale oppressione, la soffrono non per delitti, ma forse per peccati che neppure conoscono e tutti se l’abbracciano per amor di Dio. E finalmente non gli anima altro a sperare che l’E.V. in questa circostanza avesse la pena di usare quella medesima scrupolosità di riflessione e sempre basare che tale imputazione caricatagli ai supplicanti è stata creata ed inventata da effetto di vendetta privata, ed infine il tutto le rimettono alla considerazione della nota e giusta Coscienza del delizioso e giustissimo saggiatore della bilancia d’Astrea quale l’Intendente Cito. Onde così solamente poter sperare la loro libertà che tanto bramano per la giustizia, e per non distruggersi vieppiù le loro afflitte famiglie, come lo avranno anche da Dio.'”
Appellarsi al senso di giustizia, pietà e umanità dell’Intendente Cito appariva del tutto inutile, considerato che il sistema di incoraggiamento della pratica delle calunnie e delle delazioni anonime veniva alimentato proprio da lui. Il 18 luglio Andrea Tronci e Giampietro Pede inviarono un’altra supplica: “Eccellenza, Andrea Tronci e Giovanni Pietro Pede di Ortelle devotamente l’espongono che conoscendo di essere ricercati dalla di lei giustizia, in segno di ubbidienza e di rispetto si esibirono spontaneamente alla medesima; d’altronde senza alcuna reità si vedono confinati in un carcere da un mese e mezzo circa. Animati dalla loro innocenza osano ricorrere all’Eccellenza Sua pregandola compiacersi disporre che i medesimi fossero agevolati sotto mandato per questa Città, onde così alleviare in qualche modo i tristi effetti della calunnia addossatagli, e farà bene”; anche la richiesta di misure alternative al carcere non venne presa in considerazione.
Il 23 agosto la Suprema Commissione per i reati di Stato, dopo avere sentito alcuni testimoni, dispose la scarcerazione degli arrestati per insufficienza di prove; l’Intendente però decise di non dare corso al provvedimento adducendo non meglio precisati motivi di sicurezza e decidendo di applicare l’istituto giuridico dell’empara, un’odiosa misura di pubblica sicurezza che prevedeva che gli imputati di reati politici, pur in presenza di un provvedimento giurisdizionale di proscioglimento, potevano essere tenuti in carcere a disposizione della polizia, e l’Intendente Cito nel corso del suo mandato, ricorse molte volte all’applicazione di tali norme; lo fece anche con gli arrestati di Diso, Marittima e Ortelle.
“Signore”, scriveva Domenico Maria Tronci il 22 settembre, “il detenuto per misure di polizia Domenico M. Tronci oltre quanto ha umiliato all’E. S. con altre di lui suppliche, domanda che sull’intrico della manifesta calunnia ordita sifusse benignata la Eccellenza Sua trarre innanzi ai suoi occhi quanto è per esporti. Primo, che da soggetto imparziale sifusse oculatamente osservata la posizione di sua abitazione, che ben chiara si troverà aperta da qualunque angolo. Che quando dopo le ore di mezzogiorno, nei giorni festivi per lo più, sì divertivano i suoi figli al gioco del così detto ciuccio, i più frequenti ed assidui erano a giocare i signori Giuseppe Rizzelli, Nicola Pede ed Antonio De Luca, e mai i signori Russi e Maglietta, e dalla calunnia si vedon tolti ì primi e posti i secondi. Fatto questo che lo potrà deporre i detti Rizzelli, Pede e De Luca. Che il supplicante sia stato sempre uomo di santissima morale, ubbidiente alle Leggi, ed attaccato all’ordine pubblico lo potrà far deporre dall’intera popolazione di Ortelle e comuni limitrofe. Potrà l’Eccellenza Sua dal 1773 in qua far percorrere tutti li uffici delle Corti locali, dei Regi giudicati e Tribunali, non solo della Provincia, ma dell’interio Regno e vedrà chiaramente a sol di meriggio che egli non troverà neo di delitto alcuno, che eziandio non si troverà in tempo di sua vita aver fatta testimonianza veruna, né in linea civile né criminale. Richiami presso di sé l’Eccellenza Sua li stessi ricorrenti e testimoni che han figurato da calunniatori a dire, a deporre se le loro mire sono state mai contro dell’oratore. Potrà o Signore interrogargli un per uno, che uomo sia stato ed è il supplicante, se immorale, se usurpator del sangue altrui. Se li stessi calunniatori siano stati beneficati, e soccorsi in tutto ciò che li è abbisognato dall’esponente, e vedrà che nella presenza dell’eccellenza Sua non inorpelleranno la verità, e malgrado volessero farlo, che è impossibilissimo, vi è l’intera Comune che lo conosce bastantemente. Sinceratasi l’Eccellenza Sua e le Autorità tutte di tali verità, la scongiura di sprigionarlo, e vieppiù la supplica concederli per la giustizia una tal grazia, attesa la sua mal salute di continui acciacchi. Tanto spera ottenere dall’Eccellenza Sua e l’avrà a specialissima grazia”.
Nessuna supplica, però, avrebbe potuto incrinare la logica ferocemente persecutoria di Ferdinando Cito, il quale aveva tutto l’interesse a non mettere in dubbio, con un eventuale atto di clemenza, il castello accusatorio che egli, con la solerte collaborazione del capo urbano di Vignacastrisi Retinò, del regio giudice di Poggiardo Toma e del sindaco di quel paese Tommaso Sala, aveva costruito; il sindaco Sala il 19 luglio gli aveva scritto che, dopo gli arresti effettuati a Ortelle, Diso e Marittima, “lo spirito effervescente degli altri demagoghi di questo Circondario si è moderato … e nei mercati di questo Comune non si osservano più quelle unioni ambulatorie tra essi loro, e dei contatti personali”.
Dopo qualche tempo, gli arrestati si rivolsero all’Intendente implorando misure restrittive meno dure di quelle a cui erano sottoposti, ma anche questa volta la loro richiesta venne disattesa. “Eccellenza,” scrivevano il 26 settembre, “i fratelli Salvatore ed Ippazio Russi di Marittima, e Giovan Battista Maglietta di Diso, non che i fratelli Raffaele ed Alessandro Mastrangelo, Domenico ed Andrea Tronci e Giovan Pietro Pede di Ortelle, detenuti in queste prigioni centrali di Lecce, rassegnano devotamente all’E.S. che trovansi ristretti a segno che non gli è stato mai permesso di usufruire altra aria che la poca della camera, ove son chiusi. Ricorrono con ogni umiliazione al paterno cuore dell’E.S., ed implorano compiacersi permettere al custode delle suddette prigioni onde li faccia stare all’aria qualche ora del giorno. Tanto sperano, e l’avranno per singolarissima grazia”.
La richiesta venne respinta perché, dagli accertamenti fatti eseguire, risultò che non era vero che la corsia dove erano rinchiusi fosse “mancante di aria” in quanto c’era quella che entrava dalle finestre!
Cinque giorni dopo, Domenico Maria Tronci scrisse ancora una volta all’Intendente: “Signore, non avendo l’esponente vista alcuna provvidenza alle tante suppliche umiliategli, nato ciò forse che l’incartamento di sua calunnia se lo troverà spedito in Napoli a quelle supreme Autorità, ricorre perciò all’Eccellenza Sua onde permesso li avesse poter scrivere nella Capitale a qualche persona, acciò agito avesse presso le suddette Autorità, per così poter far risplendere la di lui manifesta innocenza, e quindi pel castigo dei calunniatori. Tanto spera per la giustizia ottenere, e l’avrà a singolar grazia”.
Venuti a conoscenza che uno dei loro accusatori si era presentato spontaneamente al regio giudice Toma per ritrattare quanto aveva dichiarato in precedenza e per meglio chiarire il senso della sua deposizione, il 23 ottobre 1828 gli otto scrissero all’Intendente Cito: “li sottoscritti detenuti nelle prigioni centrali per misura di polizia con devote rassegnazioni umiliano a V. E. il che segue. Inaspettatamente e con loro meraviglia videro entrare nelle prigioni il giorno ventidue del corrente ottobre Donato di Domenico Carluccio di Ortelle, il di costoro denunziante, e l’autore di tutte le sventure di otto individui, che da cinque mesi languiscono nelle suddette prigioni. Giunto che fu nel cancello, quasi piangente cercava individualmente perdono, poiché asserì egli essere stato ingannato, e tutto falso lo era di essere il denunziante, ma sì bene un testimone, che asserì la sua dichiarazione fatta innanzi a quel Regio Giudice il dì primo di giugno del corrente anno, né mai altra volta era stato interrogato dal prelodato Signor Giudice. E’ vero, diss’egli fui chiamato dal Giudice, ove rinvenni Eugenio Galati, ed in presenza di costoro fu scritta la mia dichiarazione in questi termini. Esser vero che li signori Raffaele ed Alessandro Mastrangelo e Giovan Pietro Pede di Ortelle si portavano in casa del signor Domenico Tronci di detto Comune ad oggetto di giocare, e di quando in quando andava ancora Don Salvatore Russi genero del Signor Tronci ad oggetto di visitare la suocera per la di lei lunga malattia. Che il signor Ippazio Russi solo due anni addietro lo vide sortire dalla parte del giardino col signor Andrea Tranci ad oggetto di andare in caccia, il primo col fucile ed il secondo coi cani. Né mai vide andare in casa di detto signor Tronci il signor Giovan Battista Maglietta, solo lo vide in Ortelle nel maggio del corrente anno per rinvenire persone a tagliare le sue biade. Questa fu la deposizione nella qualità di testimone, e non mai da denunziante, e se altro si rinviene è tutto l’effetto dell’intrico e della calunnia. Asserì ancora il Carluccio, che pronto era a farne qualunque dichiarazione innanzi alle Autorità. Disse altresì il Carluccio che appena inteso che egli era stato per denunziante e la rovina di tante famiglie, era deciso di venire nelle surriferite prigioni, ma le continue minacce del Galati e degli altri persecutori dei supplicanti lo avevano impedito. Non è la prima volta Eccellenza che il Carluccio confessa questo intrico, poiché nella Fiera di Minervino lo disse al Signor Giuseppe Oronzo Giubba di Giuggianello, e domandava dal medesimo come poteva fare, onde far conoscere la verità. Né tampoco può ritrattarsi il Carluccio dai suoi detti, perché espressi innanzi individui probi, come sono Notar Nicola Provenzano di Carmiano, Beniamino Grasso di Lecce, Nicola e Francesco Zara di Maglie e Donato De Luca di Ortelle con cui andava detto Carluccio unito. Eccellenza i supplicanti si han fatto un dovere rassegnarle quanto di sopra onde compiaciuta si fosse (credendolo giusto) chiamar innanzi la sua presenza il surriferito Carluccio per potersi così accertare quanto le è stato umiliato per indi dar quelle provvide disposizioni che l’innata di lei giustizia li detterà, e l’avranno a specialissima grazia”.
Chiamato a deporre, Donato Carluccio, un contadino di cinquantanni, confermò quanto aveva già detto il 22 ottobre, ma la sua testimonianza non produsse nell’immediato alcun effetto.
Avrebbe potuto l’Intendente Cito fare decidere la scarcerazione degli imputati? Per meglio comprendere il significato politico e giudiziario dell’intera vicenda, così come il clima di terrore nel quale erano costretti a vivere i sudditi del regno borbonico, e anche il diffuso sistema di corruzione che alimentava, spesso, alcune delle vicende giudiziarie del tempo, dobbiamo brevemente accennare ad un episodio che si colloca a margine dei fatti di cui stiamo parlando ma che finisce con l’esserne parte integrante. L’avvocato Donato Maria Stasi, difensore di alcuni degli arrestati, fece conoscere in forma riservata all’Intendente Cito alcuni risvolti inquietanti della vicenda; aveva saputo, e potè dimostrarlo indicando alcuni testimoni che confermarono l’accusa, che l’operazione imbastita dal regio giudice di Poggiardo Giacinto Toma, oltre ad essere una plateale ed illegale montatura (come le prove raccolte e le testimonianze stavano a dimostrarlo), veniva sfruttata dallo stesso per trame illeciti profitti; il giudice Toma, infatti, con il suo rapporto giudiziario, aveva promosso l’emissione dei mandati di cattura perché intendeva trarne profitto; pretese, infatti, che Paolino Maglietta, dietro promessa di un intervento a favore del fratello Giovanni Battista, gli versasse la somma di 30 ducati (Paolino disse all’avvocato Stasi che “si era indotto a ciò dacché conosceva che il detto signor Toma prendeva occasione di fare denaro da coloro contro i quali a bella posta aveva fabricato dei carichi”; dopo il versamento della somma il giudice gli aveva consegnato una copia di tutto l’incartamento che Paolino Maglietta passò all’avvocato); anche Domenico Antonio Russi, zio degli altri due arrestati Ippazio e Salvatore, aveva versato 24 ducati al cancelliere perché li consegnasse al giudice; e Andrea Tronci, quando decise di consegnarsi alla gendarmeria per essere trasferito in carcere, dichiarò che il suo “nemico e accusatore” Eugenio Galati aveva versato al giudice 50 ducati perché procedesse contro la famiglia Tronci. L’Intendente Cito condusse indagini riservate da cui emerse che corrispondeva a verità quanto sostenuto dall’avvocato Stasi; il giudice Toma venne destituito e trasferito in altra, ma gli arrestati non beneficiarono del provvedimento di scarcerazione, che era stato richiesto persino dalla Suprema Commissione per i reati di Stato.
Passarono altri mesi senza che nulla venisse deciso; non solo agli arrestati non beneficiarono del provvedimento di scarcerazione, ma non vennero mai interrogati perché potessero, in qualche modo, difendersi;
Il 5 febbraio 1829 indirizzarono al capo della Provincia un’altra istanza di scarcerazione: ”Signore, i qui sottoscritti detenuti vengono con questo umile foglio ad implorare la sua somma giustizia, non meno che la sua conosciuta umanità. Sono nove mesi che strappati dal seno delle loro famiglie, e dalle rispettive Comuni per ordine della polizia gemono ristretti nelle prigioni nell’ignoranza totale del reato di cui sono stati imputati … tralasciano essi esporle i patimenti che soffrono, la desolazione delle loro famiglie, e gli danni incalcolabili che soffrono nei loro interessi … i supplicanti sono tanti padri di famiglia che giammai han traviato dai dettami dell’onore, del giusto e dell’onesto, e ch’essi si sono sempre pregiati di essere subordinati alle Leggi, e buoni cittadini a fronte delle nebbie che la calunnia coi suoi aliti pestiferi ha tentato di spargere sulla di loro illibata condotta”.
Gli otto vennero rimessi in libertà l’8 febbraio per ordine del nuovo Intendente provinciale che, dalla fine di gennaio, aveva sostituito Ferdinando Cito trasferito a Salerno; nei loro confronti fu disposta la misura della “più rigida sorveglianza” con l’obbligo per i funzionari di polizia di redigere un rapporto quindicinale sulla loro condotta; il nuovo regio giudice di Poggiardo Francesco Morelli in un rapporto indirizzato all’Intendente così scriveva il 21 aprile 1829: “ciascuno attende alli propri affari, frequentando la Chiesa mattina e sera con ogni rispetto, come pure ubbidienti alle Leggi”; e Retinò, il 25 novembre, riferiva all’Intendente che, dopo gli arresti effettuati l’anno prima, le riunioni dei settari nel convento dei Cappuccini di Diso si erano “dissipate” e che era, pertanto, possibile “allentare la vigilanza”.
Non cessava, però, il clima di persecuzione nei confronti soprattutto di Ippazio Russi (che nel biennio 1820/21 aveva fatto parte della Carboneria), di Paolino e Giambattista Maglietta (i due erano zii di Liborio Romano di Patù, uno dei dirigenti del movimento carbonaro nel 1820/21), e di Domenico Tronci, tanto che quest’ultimo, al quale si contestava la sua appartenenza alla Carboneria, sentì la necessità di scrivere all’Intendente provinciale il 2 febbraio 1830: “Eccellenza, sono ormai anni che impunemente si vede continuamente calunniato da un pugno di facinorosi, coverti di ogni iniquità, tra loro collegati, resi più arditi dalle protezioni, e dalle impunità … la calunnia è sulle loro labbra, e son pronti a contestare qualunque reato che si volesse altrui imputare. La loro base è quella di essere stato un Carbonaro. Ciò non si è negato, e non si nega, che per le circostanze imponenti dei trasandati critici tempi dovei soccombere ad esserlo al pari di migliaia e migliaia di persone, malgrado ciò fui sempre l’uomo attaccato al suo Re ed alle sue sacrosante Leggi… l’esponente fin questo punto non conosce reità alcuna di delitti comuni e ciò potrà l’Eccellenza Sua francamente verificarlo. imprenda il paterno cuore dell’E. S. a metter fine a tanti suoi mali [6]”
La vigilanza sui settari si accentuò dopo la rivoluzione parigina degli ultimi giorni di luglio 1830, quando la Direzione generale di polizia di Napoli tornò a chiedere agli Intendenti (e questi a | loro volta ai regi giudici circondariali e ai capi urbani comunali) di riferire sull’attività dei presunti carbonari; l’Intendente, da parte sua, nelle relazioni riservale inviate al ministero manifestava il timore che nel capo di Leuca vi potessero essere dei “malintenzionati” i quali, “inebriati per virtù d’implausibili contatti con l’estero” si agitavano e spargevano le solite voci allarmanti su possibili sollevazioni in Abruzzo e su “altre somiglianti dicerie” che avrebbero potuto fare presa perfino sulle masse rurali che in quel periodo erano state colpite da una grave crisi economica (“si è affermato che la classe dei bracciali del promontorio salentino”, si legge in una nota dell’Intendente, “va mancante di viveri, attesa la scarsezza dei lavori di campagna”).
È in tale contesto di speranze e di illusioni alimentate dai nuovi avvenimenti di Francia che si ebbe in molte regioni d’Italia, e anche nel regno di Napoli (dove Ferdinando II era salito al trono nel 1830), una timida ripresa dell’attività Carbonara.
A partire dagli inizi degli anni Trenta però la Carboneria, colpita duramente dalla politica repressiva del governo, entrò in profonda ed irreversibile crisi, anche perché non aveva saputo elaborare un efficace programma politico che potesse, attraverso proposte di riforme sociali, coinvolgere le masse popolari; nei piccoli paesi del basso Salento i pochi e sporadici tentativi di organizzare gruppi clandestini che si impegnassero per la conquista di maggiori spazi di libertà non coinvolgevano gli strati popolari; anche nel comune di Ortelle solo uno sparuto gruppo di professionisti e alcuni artigiani si dimostravano in grado di comprendere le ragioni politiche della lotta contro l’autoritarismo e la repressione; in tutto il Regno di Napoli era mancata ogni forma di convergenza tra le istanze liberali della piccola e media borghesia e le richieste sociali dei bracciali e contadini poveri [7].
[1] Asl., Intendenza, atti di polizia, busta 9, f. 376.
[2] Sulla diffusione della Carboneria nel Salento: V. Zara: “La Carboneria in Terra d’Otranto (1820-1830)”, Torino, fratelli Bocca ed., 1913.
[3] * Ivi, pp. 120-121.
[4]‘ La vicenda del processo è stata ricostruita da Littorio Romano in suo libretto pubblicato a Napoli nel 1848: “Ferdinando Cito in Terra d’Otranto”, un atto d’accusa contro quel funzionario bollato come “feroce e divoto a tirannide”; un altro libro di memorie è stato pubblicato a cura di Giuseppe Romano: “Memorie di Libo-rio Romano e scritti di Giuseppe Romano”, Napoli. Tipografia Giannini e figli, 1894; il libro è dedicato alla madre Giulia Maglietta “che con animo gagliardo vide per lunghi anni perseguitati dalla tirannide il marito, i figli, i congiunti”. Sui liberali di Giuggianello: V. Ruggeri: “Giuggianello e Risorgimento”, Corigliano. Ti-poffset Colazzo, 1990.
[5] Asi., Intendenza, polizia, b. 15, f. 468. Il ministro degli Interni sollecitava (in cambio di lauti riconoscimenti), i sindaci, i capi urbani e i giudici circondariali a fornire informazioni sui sospetti; i nomi di coloro che davano un valido contributo all’azione di controllo (le “braccia fedeli”) venivano segnalati dall’Intendente provinciale al Ministero “onde sottoporli al Re N.S. per la di lui sovrana soddisfazione, e per delle proporzionale distinzioni in dei riscontri”; tra le “braccia fedeli” che più si distinsero nella denuncia dei liberali c’erano il funzionario Nicola Retinò (incaricato della vigilanza su Diso, Vignacastrisi, Vitigliano, Andrano e Castiglione) e il giudice Toma di Poggiardo. Asl, Intendenza, polizia, b. 3, ff. 85-86.
[6] Per tutta la vicenda relativa agli arresti effettuati a Ortelle, Diso e Marittima: Asl, Intendenza, atti di polizia, b. 16, f. 480; nel fascicolo sono contenute le lettere che abbiamo riportato nel testo.
[7] Asl. Intendenza, polizia, b. 61, f. 1559; b. 18, f. 506. b. 64, f. 1649.
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