Mino De Santis
Tra l’orchite per la pizzica, neppure più curabile dallo stesso Santu Paulu, la noia delle cover band e il piano bar fatto pure da rinomate orchestre sinfoniche, Mino De Santis è una delle poche cose per cui vale la pena rovinarsi la tranquillità del fresco nelle sere di questa estate 2013. Tutto, altrove, sa già di sentito e ascoltato fino alla nausea. Cover band sempre più raffinate, la cui capacità di clonare l’artista di successo arriva a copiare parrucche, strumentazioni, effetti, scenografie, per cui alla fine tanto vale mettere il CD dell’artista nell’impianto hifi di casa e sentirsi l’originale comodamente a casa. Poi, affliggono queste serate estive, questi artisti da conservatorio, che per sopravvivere portano nelle pubbliche piazze i successi di Canzonisima degli anni cinquanta. E piano bar puro, ma da esperti raffinati se lo chiamano crossover. Ma sinceramente sentirsi suonare Massimo Ranieri da venti strumentisti è uno spreco.
Poi c’è la solita fioritura estiva del jazz, che pare sia apprezzabile solo col caldo e i piedi gonfi. Mino è una boccata di originalità pure coi suoi limiti che dobbiamo riconoscere. Ma ha già un suo pubblico di affezionati, che sanno cosa aspettarsi e non restano mai delusi. De Santis è un cantastorie, e per questo, e per il timbro della sua voce è inevitabile accostarlo a Guccini o De Andre. Molti dicono Gaber, ma piuttosto si dovrebbe scomodare il primo Modugno.
Il testo spesso predomina, e il voler e dover raccontare delle storie, obbliga la struttura musicale a ritmi fissi e ripetuti. Mino usa il dialetto, spesso con stretta ortodossia, ma gli capita di iniziare la strofa in perfetto italiano a stimolare l’inevitabile contrasto successivo. A volte si ritrova uno stile narrativo un po troppo macchiettistico, nel tentativo di ritagliare un po troppo a tutto tondo i personaggi che popolano le sue canzoni, ma ci pare che nell’ultimo album i testi si siano fatti più raffinati, le strofe meno prevedibili, i personaggi meno caratterizzati, tutto il veleno, la censura, lo sfottò o la critica meno espliciti e nascosti magari in un solo piccolo aggettivo.
La struttura musicale, dicevano, è prigioniera delle esigenze del racconto, gli spazi per i passaggi solo strumentali molto rari. La formazione che abbiamo ascoltato a Castro in occasione di Salentetno 2013 è forse quella più adatta, formata da percussioni, chitarra e basso acustici e fisarmonica. Nelle registrazioni si sentono le tastiere e qualche fiato, nelle serate al chiuso può anche capitare di sentirlo cantare accompagnandosi solo con la chitarra.
Se vi capita in zona, andatelo ad ascoltare, di nuovo in giro c’è pochissimo, giusto quest’artista che si vanta di essere l’unico salentino senza un tamburello in mano. Ad Ortelle si esibisce il 28 luglio in occasione della 32esima edizione della Festa della Pirilla, due cose buone, appunto, insieme in un posto solo.
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